POESIA, notizie (italiano)


NOTA BIOGRAFICA / BIOGRAPHICAL NOTE

Osvaldo Coluccino (1963) è poeta e compositore. È stato scoperto come poeta nel 1990 da Stefano Agosti che lo ha portato a esordire sull’Annuario di poesia 1991-92 di Crocetti editore. Ha pubblicato i libri Strumenti d’uso comune (introduzione di Stefano Agosti, Udine 1994, ora in Prematuri umori), Quelle volte spontanee (nota critica di Giuliano Gramigna, Verona 1996), Appuntamento (postfazione di Giorgio Luzzi, Verona 2001); Gamete (postfazione di Gilberto Isella, Torino 2014), Scomparsa, tragedie (Pasturana, Alessandria 2020), Cieli d’assenzio, poemetti (introduzione di Giovanni Tesio, Lanciano 2023).  L'abbaglio del volatile, prose e racconti (Lanciano 2023).
    Suoi testi sono apparsi su prestigiose riviste letterarie (fra cui Il Verri), su antologie (una di esse con premessa di Maria Corti) e sono stati presentati o esposti per es. alla Biblioteca Civica di Verona (per la vincita del Premio Lorenzo Montano, 1996), al Civico Museo d’Arte Moderna di Trieste (in Musica senza suono, 1999), alla Biennale di Venezia (in Bunker poetico di Marco Nereo Rotelli, 2001)… 
    Ha pubblicato anche libri d’artista costituiti da sue poesie e opere originali di rinomati artisti (Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Alfonso Filieri, Marco Gastini, Franco Guerzoni, Giulia Napoleone, Wainer Vaccari, e Giulio Paolini ha creato un’opera originale di copertina, lavorati dalle più rinomate stamperie d’arte italiane come per es. Il Bulino di Roma, Calcografia Al Pozzo di Dogliani Castello, Fratelli Manfredi di Reggio Emilia, Pulcinoelefante di Osnago, Il ragazzo innocuo di Milano, Archivio Orolontano di Roma, esposti per es. alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, alla Biblioteca d’Arte e Architettura Poletti con Università di Bologna nel Festivalfilosofia di Modena, al Museo Madre di Napoli, al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea).
    Rinomati studiosi, critici e filosofi hanno scritto della sua opera.
   Come compositore è stato scoperto da Luigi Pestalozza, la sua musica è stata pubblicata dalle edizioni RAI Trade, commissionata per es. da Biennale di Venezia, Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Teatro La Fenice di Venezia, Transit Festival Leuven, Muziekcentrum De Bijloke Gent, Conservatorio Reale di Bruxelles, Milano Musica-Teatro alla Scala, e registrata su dischi delle maggiori etichette internazionali di musica classica contemporanea.
   Ha dedicato la propria vita alla creazione artistica ma anche ad aiutare in persona gatti abbandonati e disperati, e a volte anche altre creature. Da sempre attivo per i diritti degli animali, contro ogni loro sfruttamento, è vegetariano dal 1980.



PIÙ INFORMAZIONI / MORE INFORMATIONS

Opere • Pubblicazioni • Premi • Presentazioni ed Esposizioni • Critica • Frammenti critici


OPERE / WORKS
  1. Cielo d’assenzio (1987-1989), poemetti
  2. Gamete (1989-1990), poesie
  3. Quale leggerezza (1990), poesie [non ancora pubblicato]
  4. Scomparsa (1991), tragedie in versi
  5. Prematuri umori (1991-1992), poesie [parzialmente pubblicato]
  6. L’abbaglio del volatile (1992-1993), prose
  7. Quelle volte spontanee (1993), poesie
  8. Appuntamento (1994-1997), poesie in prosa
  9. Manto (2001-2003), poesie [pubblicato solo come libro d’artista]
Quaderno di traduzioni (1991-2003), poesie e prose [non ancora pubblicato]
(Mallarmé, Rimbaud, Nerval, Michaux, Ponge, Bonnefoy).



PUBBLICAZIONI (libri, antologie, riviste letterarie) / PUBLICATIONS (books, anthologies, literary magazines)
  1. Madrigali, 14 poesie, presentazione di Stefano Agosti, in Annuario di poesia 1991-92, Crocetti Editore, Milano 1992.
  2. Strumenti d’uso comune, libro di poesie, introduzione di Stefano Agosti, Campanotto, Udine 1994.
  3. L’alba corrente spersa, prosa, Un’evocata, 6 poesie, in “Anterem” – Verso, n. 49, dicembre 1994, Anterem Edizioni, Verona 1994.
  4. Camicie del riso, 21 poesie da Strumenti d’uso comune [ora in Prematuri umori], in “Poesia”, n. 81, febbraio 1995, Crocetti, Milano 1995.
  5. Discensione, prosa, in “Anterem” = 0, n. 51, dicembre 1995.
  6. L’aranciera, traduzione da Yves Bonnefoy, in “Testo a fronte”, n. 12, marzo 1995, Crocetti, Milano 1995.
  7. Quelle volte spontanee, libro di poesie, nota critica di Giuliano Gramigna, Anterem, Verona 1996 (pubblicazione per la vincita del Premio “Lorenzo Montano”).
  8. Archeologia di Anzuno, [ora Archeologia marina], prosa, in “Anterem” – Ante Rem, n. 53, dicembre 1996 (numero speciale a cura di Franco Rella).
  9. Odollam [ora Diktaion], Il gemello dal molo, poesie, in “Origini”, n. 30, dicembre 1996, La Scaletta Edizioni, Reggio Emilia 1997 (numero speciale per l’Artefiera di Bologna).
  10. Quel sole, Proibito, Amore, L’attimo prima, poesie in prosa, in “Il Verri” – Praticare la poesia, anno XLII, n. 2-3, giugno 1997, Monogramma Editore, Milano 1997.
  11. Discensione, prosa, Un’evocata, poesie, in Scritture di fine Novecento (volume premessa di Maria Corti), Anterem, Verona 1998.
  12. Ritratto fotografico di Osvaldo Coluccino, in Ritratto della voce, fotografie di poeti e studiosi di letteratura, foto di Giulia Adami, disegni di Cosimo Lerose, Cierre Grafica Edizioni, Verona 1998.
  13. Angehende, Harem, L’arco diviso, Palazzo Reale, poesie in prosa, in “Anterem” – L’Altro, n. 56, giugno 1998.
  14. Leggenda, Nuova partenza, Concerto, Il primo luogo, poesie in prosa, Nella nostra cura, Azzurro, prose, con una nota di Antonio Rossi, in “Idra”, n. 17, giugno 1998, Marcos y Marcos Editore, Milano 1998. 
  15. Appunti per l’aurora, poesia in prosa (con anche quattro riproduzioni fotografiche dei dipinti Scuola marina 1993-1994), in Musica senza suono, Art & Edizioni 1999 (catalogo della mostra al Civico Museo d’Arte Moderna di Trieste, “Revoltella”, 21 giugno-31 agosto 1999).
  16. Tappeto miniato, Traversata del rappresentante, Concerto, poesie in prosa, in “Anterem” – Endiadi, n. 59, dicembre 1999.
  17. Capodanno, Nelle quinte, In questa cerea nebbiolina, poesie in prosa, con introduzione di Gilberto Isella, in “Bloc notes”, n. 40, Lugano, dicembre 1999.
  18. Risposte a due domande, in “Il Verri” – Perché scrivi poesie?, anno XLVI, n. 15, gennaio 2001.
  19. Appuntamento, libro di poesie in prosa e in versi, postfazione di Giorgio Luzzi, acquaforte originale di Francesco Franco, Anterem, Verona 2001.
  20. Libera, poesia, in Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002 (antologia dell’installazione Bunker Poetico di Marco Nereo Rotelli, 49a Biennale di Venezia arti visive, 2001).
  21. Salda all’aria identica, Estate, poesie, in “Anterem” – La musica pensa la parola, la poesia pensa il suono, n. 63, dicembre 2001.
  22. Eco, Leggenda, poesie in prosa, in “Musica/Realtà”, n. 66, Lim Editore, Milano novembre 2001.
  23. Libera, poesia, in Poesia in azione (Per il Bunker Poetico di Marco Nereo Rotelli – 49a Biennale di Venezia, 2001), Milanocosa, Milano 2002.
  24. L’abbaglio del volatile, libro di prose, edizione in poche copie per gli amici, Due Punte Edizioni [s.i.], 2003.
  25. Mora, Cerchi, Fleuri, prose, in “Il Verri” – Tra lingua e psiche, anno XLIX, n. 24, gennaio 2004.
  26. L’ava l’eguaglia nel fato, Era, ballata a fil di tempo, E cola, odendo, Di lì a sfinirsi, poesie, in “Microprovincia” – Omaggio alla Poesia Italiana (introduzione di Giorgio Barberi Squarotti, Panorama esemplare della nostra poesia contemporanea), n. 24, 2004, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 2004.
  27. Il manto, plaquette (Ha dal fondo gessato, In pausa l’apice (riverberi), Due Punte, maggio 2005.
  28. Il manto, plaquette (Intreccia film radente, Minato quale leva al tonfo), M.me Webb Edizioni, Domodossola, giugno 2005.
  29. Natura morta, Il posto libero, Marta, poesie in prosa, a cura di Stefano Guglielmin, in “Blanc de ta Nuque” – Osvaldo Coluccino, giugno 2006.
  30. Appuntamento, libro d’artista con l'intera raccolta e con originali illustrazioni e acquatinta di Marco Gastini, prefazione di Stefano Agosti, progetto grafico di Franco Mello, stampa d’arte Calcografia “Al Pozzo”, Dogliani Castello, Coup d’Idée Edizioni d’Arte, Torino 2010.
  31. Gamete, libro di poesie, prefazione di Gilberto Isella, opera di copertina originale di Giulio Paolini, Coup d’Idée Edizioni d'Arte, Torino 2014.
  32. Scomparsa, tragedie in versi, libro di poesia, Puntoacapo, Pasturana 2020.
  33. Manto, libro d’artista con la raccolta intera e con 5 opere originali di Franco Guerzoni, stampa d’arte del Laboratorio Fratelli Manfredi, Reggio Emilia, Rodriguez Editore, Pescara, 2021.
  34. Quale leggerezza, libro d’artista in 9 copie, con 3 poesie inedite, La migrazione, Mare, Quale leggerezza, dalla raccolta omonima e con 2 opere originali per ciascuna copia (18 complessive, tutte diverse) di Tommaso Cascella, stampa d’arte di O. Coluccino, Rodriguez Editore, Pescara, 2022.
  35. Essenze, assenze, libro d’artista in 9 copie, con 3 poesie inedite, Essenza della montagna, Unione con le assenze, Il viaggio di ritorno, dalla raccolta Quale leggerezza, e con 2 opere originali per ciascuna copia (18 complessive, tutte diverse) di Giulia Napoleone, stampa d’arte di O. Coluccino, Rodriguez, Pescara, 2022.
  36. Diktaion, libro d’artista in 9 copie, con 1 poesia inedita, Diktaion, dalla raccolta Quale leggerezza e con 2 opere originali per ciascuna copia (18 complessive, tutte diverse) di Bruno Ceccobelli, stampa d’arte di O. Coluccino, Rodriguez, Pescara, 2022.
  37. Fontana, libro d’artista in 33 copie, con 1 poesia inedita, Fontana, dalla raccolta Cieli d’assenzio, e con 1 opera originale per ciascuna copia (33 complessive, tutte diverse) di Giulia Napoleone, stampa d’arte di Alberto Casiraghy, Edizioni Pulcinoelefante, Osnago, 2022.
  38. Una eco, libro d’artista in 40 copie, con 2 poesie inedite dalla raccolta Cieli d’assenzio e con una incisione originale di Giulia Napoleone, stampa d’arte di Luciano Ragozzino, Il ragazzo innocuo, Milano, 2022.
  39. Canto del risveglio, libro d’artista in 4 esemplari unici, con 2 poesie inedite dalla raccolta Cieli d'assenzio e con opere originali di Alfonso Filieri, stampa d’arte di Alfonso Filieri, Archivio Orolontano, Roma 2022.
  40. Ai piedi degli alberi, libro d’artista in 35 copie, 4 poesie inedite, Monticelli d’emigrati sguardi, Armonia di spersi astri, La terra una selce impavida fendeva, Variegata canta una fronda di Osvaldo Coluccino, da Cieli d'assenzio, e 6 opere originale di Giulia Napoleone, stampa d’arte di Sergio Pandolflini, Stamperia d’Arte Il Bulino, Roma 2023.
  41. Cieli d'assenzio, poemetti, libro di poesie, introduzione di Giovanni Tesio, Carabba, Lanciano 2023.
  42. L'abbaglio del volatile, libro di prose e racconti (nota di Osvaldo Coluccino, CarabbaLanciano 2023).


PREMI / AWARDS
  1. Premio “Lorenzo Montano” 1996, Opera Inedita (premio consistente nella pubblicazine del libro Quelle volte spontanee). 
  2. Finalista al Premio “Guido Gozzano” 1995. Opera edita (Strumenti d'uso comune)
  3. Finalista al Premio “Giovanni Pascoli” 2002. Opera edita (Appuntamento)


PRESENTAZIONI ED ESPOSIZIONI / PRESENTATIONS AND EXHIBITIONS
  1. Le strade della poesia, presentazione delle poesie da Madrigali (assieme a Mario Luzi, Franco Fortini, Luciano Erba, Maria Luisa Spaziani, Raffaello Baldini, Elio Filippo Acrocca, Enzo Fabiani, Marcello Frixione, Cristina Alziati, Stefano Agosti, Giuliano Gramigna), Sala Consigliare, San Donato Milanese,  maggio 1992.
  2. Premio “Lorenzo Montano”, per il primo premio opera inedita, Biblioteca Civica, Verona, ottobre 1996.
  3. Musica senza suono, 4 poesie esposte, Civico Museo d’Arte Moderna, Trieste, estate 1999. 
  4. Bunker Poetico, una poesia esposta installazione di Marco Nereo Rotelli, Biennale di Venezia, estate 2001. 
  5. Osvaldo Coluccino e Marco Gastini presentano il libro “Appuntamento” (relatori Stefano Agosti per il poeta, Elena Volpato per il pittore, Franco Mello per la stampa d’arte), Galleria d’Arte Moderna di Torino, 22.4.2010.
  6. Provocazioni e corrispondenze. Franco Mello fra arte e design, in esposizione il libro d’artista Appuntamento, Fondazione Plart - Museo Madre, Napoli, 9 marzo- 3 giugno 2017.
  7. Libri e artisti, in esposizione il libro d’artista Essenze assenze, Galleria d’Arte L’Originale, Milano, novembre-dicembre 2022.
  8. Osvaldo Coluccino (a cura di Gilberto Isella e con Giulia Napoleone), Areapangeart, Incontri d’Arte, Bellinzona, giugno 2023.
  9. Il corpo della parola. I libri di Giulia Napoleone, Biblioteca d’Arte e Architettura Poletti, con Università Statale di Bologna – Festivalfilosofia, in esposizione il libro d’artista Ai piedi degli alberi, Modena, 15 settembre 2023-4 febbraio 2024.
  10. Almost Blue, in esposizione il libro d’artista Ai piedi degli alberi, Moregola Gallery Busto Arsizo – Festival FilosoFarti, 18.2-7.4.2024.
CRITICA / CRITICISM
  1. Stefano Agosti, Osvaldo Coluccino, in Annuario di poesia 1991-92, Crocetti, Milano 1992.
  2. Stefano Agosti, introduzione a Strumenti d’uso comune, Campanotto, Udine 1994 (trascrizione della presentazione pubblica, San Donato, Milano 16 maggio 1992).
  3. Giuseppe Genna, in “Poesia”, n. 78, novembre 1994.
  4. Stefano Crespi, in “Il Sole-24 Ore”, n. 196, 23 luglio 1995.
  5. Giovanni Cappuzzo, in “Arenaria”, n. 32-33, 1995-96.
  6. Giuliano Gramigna, nota critica a Quelle volte spontanee, Anterem, Verona 1996.
  7. Giorgio Luzzi, in “Poesia”, n. 116, aprile 1998.
  8. Antonio Rossi, Su alcune composizioni di Coluccino, in “Idra”, n. 17, giugno 1998.
  9. Gilberto Isella, Appunto per Osvaldo Coluccino, in “Bloc notes”, n. 40, Lugano 1999.
  10. Andrea Cortellessa, Per una parola liminare, in Verso l’inizio (Percorsi della ricerca poetica oltre il Novecento), premessa di Edoardo Sanguineti, Anterem, Verona 2000.
  11. Giorgio Luzzi, Piemonte e Novecento: percorsi della poesia, in Cultura del Novecento in Piemonte: un bilancio di fine secolo, Atti del Convegno San Salvario Monferrato 5-8 maggio 1999, Edizioni della Biennale Letteratura, San Salvario Monferrato 2001.
  12. Giorgio Luzzi, postfazione ad Appuntamento, Anterem, Verona 2001.
  13. Stefano Agosti, in Poesie scelte di Cesare Greppi, Anterem, Verona 2001.
  14. Gilberto Isella, La forza energetica della parola, in “Il Giornale del Popolo”, Lugano 18 ottobre 2001.
  15. Sandro Montalto, Alcuni percorsi di ricerca letteraria, in “Il Segnale”, n. 60, ottobre 2001.
  16. Antonio Curcetti, in “Hebenon”, n. 9-10, aprile-ottobre 2002.
  17. Tiziano Salari, Il luogo del poema di Osvaldo Coluccino, saggio in “Microprovincia”, n. 40, 2002.
  18. Stefano Agosti, La lingua dell’evento, in Forme del testo (Linguistica, semiologia, psicoanalisi) Università di Venezia Cà Foscari, Cisalpino (Istituto Editoriale Universitario), Milano 2004.
  19. Tiziano Salari, in “Hebenon”, anno VIII, Terza Serie, n. 1, I sem. 2004.
  20. Lucio Saviani, Osvaldo Coluccino, “Appuntamento”, in “Romanzieri.com”, 2004; poi, col titolo La muta drammatica di essenze, in “Poesia da fare”, IV Quaderno, dicembre 2004.
  21. Stefano Agosti, Parola plurale e oggetti metonimici, prefazione ad Appuntamento, illustrazioni di Marco Gastini, Coup d’Idée Edizioni d’Arte, Torino 2010.
  22. Gilberto Isella, Gamete, un lemma, postfazione a Gamete, Coup d’idée, Torino 2014.
  23. Michelangelo Castagnotto, Di quale colpa si è macchiato il poeta Osvaldo Coluccino, novembre 2014.
  24. Marzio Pieri, in “Le Reti di Dedalus”, aprile 2015. 
  25. Marzio Pieri, in “Fermenti”, 2016. 
  26. Rosa Pierno, Su Gamete di Osvaldo Coluccino, in “Carte del Vento”, anno XIV, n. 33, gennaio 2017.
  27. Giuseppe Possa, Osvaldo Coluccino, “Gamete”, in “La scintilla”, 20 novembre 2019.
  28. Benedetta Caia, Mancanza ed escapismo, Osvaldo Coluccino, Scomparsa, in “L’Indice dei Libri del Mese”, marzo 2021.
  29. Rosa Pierno, Giulia Napoleone e Osvaldo Coluccino in “Essenze, assenze”, libro d’artista, 2022, in “Traversale”, novembre 2022.
  30. Gilberto Isella, Poesie inedite di Osvaldo Coluccino, in “Areapangeart”, presentazione della serata dedicata alla poesie di O. Coluccino, Bellinzona, 12 giugno 2023.
  31. Giovanni Tesio, Coluccino, ovvero della pluralità tra musica e senso, introduzione a Cieli d’assenzio, Carabba, Lanciano 2023.

FRAMMENTI CRITICI / CRITICAL FRAGMENTS

[…] Forme brevi, concentratissime e aliene da ogni intento dimostrativo (discorsivo), si presentano come altrettanti organismi sintattici chiusi di squisita complessità, ove la materia verbale, incontrastata sovrana, è piegata a configurazioni quasi da lingua desinenziale: «Impiega ami nitore o sporadico / Aroma a le dee carpire di Terra // Prenderne un fioco, che nato / Brusisce, vocìo, da unire all’ambra su.» 
    Sarebbe facile indicare la somma di procedure messe in atto nel campione (e in ciascuno dei testi presentati al lettore). Qui, sommariamente: la stupenda divaricazione, semantica e grammaticale, delle sostanze coordinate in apertura; la violenza – ma del genere, per così dire, soave – della costruzione disgiuntiva nel secondo verso, imperniata sull’isolamento della preposizione (la a, con reggenza di “carpire”), costruzione che viene ribattuta, ma con altri elementi (aggettivo + sostantivo, fioco… vocio), nella seconda coppia di versi; la conclusione, diciamo, “a perdere”, sigillata com’è da avverbio (su: normalmente preposizione) che designa piuttosto continuità semantico-sintattica che non chiusura; e così via. Tutto questo al servizio di un “motivo” di natura impalpabile qual è quello di strappare il vocìo-brusio delle dee dalla terra – con astuzie di “ami”, “nitore”, “aroma” – per portarlo a congiungersi con l’ambra del cielo. 
    Mi dispiace di dover scendere a questo genere di traduzione. Ma si tratta di poesia così nuova che penso non sia inutile fornire al lettore qualche chiave di accesso all’insolita conformazione dei suoi delicati organismi. 
    Per i quali non vedo altra prossimità, nella poesia italiana contemporanea, se non quella con un altro straordinario (anche se ascoltato non quanto si dovrebbe) “syntaxier” dei nostri giorni, Cesare Greppi. Che però risulta ignoto al Nostro, come ignoto (o perlomeno non amato) gli risulta Pizzuto, che potrebbe essergli parente in prosa, ma – a motivo del genere – con minore fascino, minore magia.
Stefano Agosti, Osvaldo Coluccino, prefazione a Madrigali
in Annuario di poesia 1991-92, Crocetti, Milano 1992

«[…] la poesia ha sempre a che fare con situazioni emotive o mentali complesse, le situazioni non complesse si articolano normalmente nel linguaggio comune, nel linguaggio comunicativo. Di fronte a un oggetto mentale complesso o, anche se non complesso, a quella che è per esempio la sensazione, il poeta deve operare, all’interno del linguaggio, una sorta di rivoluzione totale, per fissare quanto normalmente esorbita dalla possibilità di una traduzione della sensazione o dell’oggetto mentale complesso in linguaggio. […] Vi faccio un esempio: come si fa a tradurre per verba la sensazione di un profumo o quella del mal di denti? Il passaggio da questa sensazione alla registrazione scritta è abissale. Potete riferire del profumo attraverso certe analogie, certe suggestioni, ma dire che cos’è, articolando linguisticamente, è qualcosa che il linguaggio comune sicuramente non arriva a fare. Tutta la grande poesia è impegnata, attraverso la lingua stessa, alla restituzione di questi stati, mentali o emotivi, non inscrivibili normalmente nella lingua. 
    Qualche esempio. Supponete una sensazione di magia, dentro alla quale insista qualcosa di funebre. Una magia con un’apertura verso il mortuario. Il poeta, che si suppone sia di fronte a una situazione del genere, diciamo Pascoli, la affronta in questo modo – è la poesia L’assiuolo, di cui vi leggo l’ultima strofa: «Su tutte le lucide vette / tremava un sospiro di vento; / squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento / (tintinni a invisibili porte / che forse non s’aprono più?…); / e c’era quel pianto di morte… / chiù…». Supponete invece una situazione di contrasto: un dato interiore tumultuoso che diventa ancora più tumultuoso e più incontenibile di fronte a un quadro naturale che sia il massimo della solitudine e della pace, e una notte di luna in cui tutto resti immobile. È Leopardi, l’Ultimo canto di Saffo: «Placida notte e verecondo raggio / Della cadente luna; e tu che spunti / Fra la tacita selva in su la rupe, / Nunzio del giorno; oh dilettose e care, / Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, / Sembianze agli occhi miei; già non arride / Spettacol molle ai disperati affetti.» Oppure supponete uno stato di sospensione in cui si dia una sensazione di animazione del naturale in un momento speciale della natura come può essere l’ora meridiana, con la presenza di qualche cosa di animato e in cui le figure del mito cominciano a rianimarsi sotto la sferza del meriggio. Ebbene, per esempio, ancora Leopardi traduce questo stato di sospensione in una complessa struttura ipotattica ove le preposizioni subordinate le une alle altre rimandano continuamente l’evento – parlo di Alla Primavera o delle favole antiche, che tutti noi naturalmente conosciamo: «Perché i celesti danni / Ristori il sole, e perché l’aure inferme / Zefiro avvivi, onde fugata e sparta / Delle nubi la grave ombra s’avvalla; Credano il petto inerme / Gli augelli al vento […]» In questo caso, la sospensione attuata attraverso la struttura delle proposizioni subordinate, insieme all’uso di parole misteriose come “credano” adoperato in accezione etimologica, “perché” che vale benché ecc., tende a tradurre la sospensione dell’evento o un mistero che sta per nascere.
    I grandi poeti sono sempre di fronte a dei problemi di forma, di linguaggio, di invenzione formale la quale deve essere tanto più sofisticata, tanto più complessa quanto più gli oggetti mentali, o le sensazioni che determinano l’applicazione poetica, sono complessi o addirittura ineffabili, come gli esempi che ho dato. Più la situazione è complessa, più le strumentazioni devono essere sofisticate per catturarla. Coluccino, in questa serie di poesie che si intitola Madrigali, si trova di fronte anche lui a delle situazioni mentali complesse. Per risolvere le quali compie un’operazione che porta al limite l’istituto della lingua italiana. 
    […] Coluccino fa un’operazione un po’ sul tipo di quella che ha fatto Mallarmé in Francia […] Ecco allora nella poesia di Coluccino, come in quella di Mallarmé […] l’impegno a trasformare una lingua posizionale, una lingua progressiva qual è l’italiano, in lingua desinenziale, in lingua analitica, quasi che le parole, dislocate in punti diversi della frase, dovessero recuperare la loro possibilità desinenziale. Naturalmente è un gioco su una lama, perché non essendo l’italiano se non parzialmente una lingua desinenziale, l’operazione finirà per portare il sistema al limite. Ma nel portare il sistema espressivo al limite sta la novità della poesia di Coluccino. 
    Vi faccio solo un esempio. Supponete una situazione semantica di questo tipo, una sorta di animazione raso-terra del naturale, quasi che si trattasse di una proliferazione di divinità; un raso-terra dotato di una straordinaria lievitazione, quasi una polvere d’oro, una polvere divina, una polvere di dee, e che il poeta tenti di catturare questo lievitare del suolo (del raso-terra), al fine di svincolarlo da lì per portarlo a una situazione non terrestre ma celeste. Le dee, il posto delle dee non è quello del suolo ma è quello del cielo. Da tutto questo nasce una poesia che è straordinaria per la somma di procedure formali che vengono messe in atto: «Impiega ami nitore o sporadico / Aroma a le dee carpire di Terra // Prenderne un fioco, che nato / Brusisce, vocìo, da unire all’ambra su.». 
    «Impiega ami nitore o sporadico / Aroma», qui abbiamo anzitutto una inconsueta distanza semantica fra gli elementi che compongono la serie (“ami”, “nitore”, “aroma”) ognuno dei quali si inscrive in un proprio campo noetico. La traduzione lineare è la seguente: per prendere, catturare queste dee che proliferano sul raso-terra occorreranno astuzie di “ami”, di abbagli (“nitore”) e di profumo (“sporadico aroma”). Si ha poi la disgiunzione violenta della preposizione dal verbo a cui è annessa: a carpire le dee di Terra. La disgiunzione mette in evidenza la preposizione “a”, che se fosse congiunta normalmente al suo verbo non avrebbe evidenza strutturale nel testo: la preposizione “a” è addirittura uno dei pivot del primo distico. «Prenderne un fioco, che nato / Brusisce, vocìo»: di questo pullulare occorre afferrare gli elementi per trasferirli in una dimensione celeste. Anche qui una grande distassia, una grande divaricazione separa l’aggettivo dal sostantivo secondo una prassi inconsueta in italiano; addirittura la separazione è data da una frase incidentale, relativa, che separa l’aggettivo “fioco”, dal sostantivo “vocìo”. Abbiamo insomma una violenta dislocazione degli elementi, la quale sospende, in insieme linguistico non ordinario, l’evento miracoloso della trasformazione del naturale nel sovrannaturale.
    […] una reinvenzione del linguaggio a partire da un’altra lingua; nella fattispecie la lingua latina, o forse anche la lingua greca […] Mi dispiace essere sceso a una traduzione di una poesia così intraducibile – e la poesia deve essere intraducibile – ma vi è anche la necessità “didattica” di riportare a una specie di livello zero, di lettura magari banale, di lettura continuata, ciò che la poesia dice in figure complesse. Operiamo pure delle “traduzioni” in linguaggio lineare ma riportiamoci poi alle figure complesse della poesia.
Stefano Agosti, introduzione a Strumenti d’uso comune
Campanotto, Udine 1994 
(trascrizione della presentazione al pubblico, a Le strade della Poesia 
San Donato Milanese, 16 maggio 1992)

Ci sono libri che spazzano le nostre certezze, azzerano i territori del nostro sentire con una discrezione totale, implacabile. Sono libri che costringono tutti noi ai nutrimenti di infanzie scordate, in momenti in cui non vogliamo ricordarle. Libri che entrano nella nostra vita di soppiatto, senza squassarla con fragore, ma istillando il dubbio se i fondamenti del nostro situarci siano saldi come un’ora prima di averne aperta una pagina. […] Ne nasce una poesia difficile e auratica quanto la pratica della danza, che in ogni istante smentisce nel muscolo del danzatore la levità del suo apparire. («Ora, basta fronzuto mutare! // Rispondeva è puro per lavarmi, / In stanze che non smettono appiattire.»). C’è la sapienza tremenda di dire qualcosa che sarà percepito come totalmente vero e decisivo o come del tutto falso e inutile.
Giuseppe Genna, recensione a Strumenti d’uso comune
in “Poesia”, n. 78, novembre 1994

La poesia di Coluccino propone, nella sua strutturazione espressiva, una problematica da qualche tempo viva nel mondo della letteratura contemporanea. La poesia non è sempre un linguaggio tutto espanso in fuori, tutto verbalmente estrinseco, proprio perché, allorché deve farsi carico di una resa espressiva legata a motivazioni di ordine spirituale o sensitive complesse, ama affidarsi spesso all’arduo esercizio di suggerimenti e di sottili riferimenti figurativi in un processo di quella che la critica considera «reinvenzione dello strumento linguistico». […] Attraverso una tessitura di relazioni fermate in una loro mobilità di sensazioni incredibili, il poeta può reinventare il linguaggio: è un processo spesso di difficile resa per la varietà delle formulazioni tecniche che vanno dalla collocazione verbale delle parole allo spessore semantico delle stesse che vengono ricreate o come reinventate, nel momento in cui devono farsi carico di esprimere sensazioni o fatti emotivi complessi. È come una sorta di magia di straordinarie evocazioni del sottosuolo psichico, valida per la creazione di una nuova civiltà poetica, capace di superare la sconosciuta dimensione del linguaggio e di conferire allo stesso lo spessore di “ricreazione” inventiva e fantastica 
    […] La pregnanza comunicativa e semantica fa ascrivere la lirica di Coluccino nell’ambito di una interessante stagione espressiva che si carica talvolta di un ritmo allucinato e quasi vertiginoso «Provando / Su silenzi patinati e biancori / Aprendo lanciate possibilità». È un fatto rivoluzionario e innovativo in senso totale, radicale, sullo stesso terreno concettuale: è l’invenzione di una sintassi inedita, di un modulare insueto e la scoperta di una nuova pregnanza del vocabolo che ritrova relazioni sottilmente arcane.
Giovanni Cappuzzo, recensione a Strumenti d’uso comune
in “Arenaria”, n. 32-33, 1995-96

Nella varietà delle scritture poetiche, sarebbe ripetitivo ribadire quanto sia difficile fermare segni di esemplarità, riferimenti plausibili […] Per una coincidenza, due libri della giovane generazione, usciti nell’anno in corso, recano una presentazione di Stefano Agosti. Può essere uno stimolo per avvicinarsi a una situazione consequenziale, dal punto di vista di scelta, di lettura di un critico. Su queste pagine ci siamo accostati recentemente al volume di Agosti, Critica della testualità (nelle edizioni del Mulino). Un testo impervio, ma stimolante, capace di raggiungere, entro una compatta fenomenologia interpretativa, figure del profondo, dinamiche intraducibili. Anche per questi due libri di poesia, l’attenzione di Agosti ha il suo riscontro privilegiato nella centralità del linguaggio, nella sua tensione emotiva e mentale, nella sua “totalità” di forme e non forme. Non è inopportuno aggiungere che si tratta di libri, nel dato immediato della lettura, con una certa complessità proprio perché sfuggono a una prospettiva di tema, di significato, di condizione esistenziale, di uniforme rappresentazione di un concetto. […] Strumenti d’uso comune è il titolo della raccolta di Osvaldo Coluccino. Non sappiamo nulla di questo autore: c’è rimasta nella memoria la fotografia di un giovane signorile sul mensile “Poesia”. Il nostro vuole essere, in questo caso, un segno di attenzione. […] In una lezione critica, fitta, tramata [di Agosti], la circostanza di questa presentazione sta a confermare uno scatto di poetica, di intuizione, di passione intellettuale.
Stefano Crespi, Dissonanze d’Agosti
in “Il Sole-24 Ore”, n. 196, 23 luglio 1995

[…] L’invocazione all’iperbole («Hyperbole! de ma mémoire / Triomphalement ne sais-tu / Te lever…») secondo il ben noto incipt della Prose pour des Esseintes di Mallarmé, può essere usufruita per abbozzare un certo schema di lettura di Quelle volte spontanee di Osvaldo Coluccino? […] i versi qui presentati sembrano catafratti da un’idea di rigore intimata proprio da quella lezione. L’astrazione vi domina, come primo effetto: ma costruita con “oggetti” che non hanno profili sfilacciati, nebulosi, incerti, piuttosto netti, direi taglienti. La sensazione d’astratto discende da ciò: che il lettore inizialmente non riesce a capire da che ordine o sistema provengano, e in quale debbano andarsi a collocare. Questa potrebbe essere una prima spiegazione di quel termine, iperbole, usato in apertura, se etimologicamente vale quanto “gettare al dilà”, “al disopra”. Le metafore, di cui questi versi sono zeppi, scavalcano, passano oltre il termine di riferimento cui normalmente andrebbero collegate, appartenga poi al mondo naturale o a quello mentale. […] 
    In queste “stanze”, come vorrei chiamarle in significato doppio, si dà non una semplice apparizione ma un lavoro, un’attività. L’enunciato energico, come isolato dal contesto: «Quando un’esclamazione!» da un lato richiama l’ipotesi (interpretativa) avanzata ad apertura di nota, a proposito di iperbole; dall’altro, sembra incorporare la volontà attiva, formativa di una poesia-evento […] Come in certe composizioni campanelliane o vichiane, qui non si fa altro che compiere, valendosi di queste materie e di questi scenari, un gesto di conoscenza, un gesto demiurgico, rituale. Possiamo parlare, con qualche precauzione, di poesia performativa? 
    Il testo di apertura della raccolta: «Se in aria medica / E dentro il fruscio di cieli un viso / Elevava, insabbiato di fragranze / Ondulando i regni […]» configura, direi così direttamente, nello spiegarsi dei suoi versi, un tragitto di elevazione alla conoscenza che si completa, in un certo senso si chiude, come un contenitore verbale condotto a termine, nella figura dell’“urna d’oro”. […] Ma (questa mi pare la peculiarità della raccolta) le figurazioni di tale esperienza vanno alla fine un tratto di là dall’esperienza stessa. […] 
    Non si tratta di un tentativo maldestro di spicciolare ciò che i versi dicono a modo loro: ma di ipotizzare il processo che si intravvede a reggere i testi in questione. Dove il lavoro delle metafore non sarà di rinviare di volta in volta a un significato verificabile ma a una rete di sensi coerenti a se stessi e in qualche modo indipendenti. «Succo ardente che dà l’orma, / Sopra i tetti dei frutteti, / Lungo i biondi destini d’acqua, / Svegliando i sahara.»
Giuliano Gramigna, nota critica a Quelle volte spontanee
Anterem, Verona 1996

«[...] il suo linguaggio, senza eccessivi strappi sintattici né forzature ritmiche, fa vibrare immagini ed emozioni nell’ambito delle analogie, delle allegorie, dei simboli, delle metafore, in una personale cadenza evocativa-meditativa. [...] Si tratta di folgorazioni e balenii, purificati da contaminazioni riflessive e esortatorie, e caratterizzate da un andamento incalzante, da un magma vulcanico, in cui i versi si susseguono, si accavallano, si raggrumano. Ogni lirica di Coluccino è un fremito che, nella malia esplosiva delle strofe, sembra ripetere il prodigio del sangue vivo e dietro le parole è possibile riconoscere una “voce” che parla: sono sensazioni, fuggevoli momenti in cui i sentimenti e le cose assumono un sapore genuino [...] la sua è una poesia legata a una precisa e onestamente rispettabile esperienza esistenziale, che viene presentata con pulizia e rigore stilistico. […] Egli ha saputo aprire e tenere un suo discorso che si distingue per gli esiti ottenuti, al di là di forme postermetiche, surreali, di nuovi sperimentalismi stilistici. Osvaldo Coluccino ha affondato, come dicevamo, in una zona propria che aspira tenacemente alla totalità integra dell’espressione.»
Giuseppe Possa, “Quelle volte spontanee” di Osvaldo Coluccino,
in “Eco-Risveglio”, 19 gennaio 1997

Trovandoci, alcuni di noi, tirati dentro per i capelli nel falso problema del conflitto tra il “chiaro” e l’“oscuro” in poesia – come dire che esiste una poesia chiara-in-sé che non sia necessariamente altro dalle cose chiare-per-sé? – approdiamo, con questo fulgido volumetto di Osvaldo Coluccino, a un congegno persuasivo estremamente confortante. […] «E argenta, sopra gl’eden / Incagliati nel ghiaccio, / I traghetti su Achernar, / Avvelena di calde morene, / Di tormente avverate nella serra.» È solo un frammento ma definitivo di una posizione che attribuisce al poeta un compito ascetico e resistente che non è quello del ricognitore e nemmeno quello dell’inventore di situazioni; è un compito tutto riversato dentro il divario occulto del mondo, là dove un Io non è neppure pronunciabile, tanto il suo esercizio nel dissodarne la mineralità inesplorata assorbe per intero la dichiarabilità stessa del soggetto. Un processo di questo tipo ha una missione ben precisa, che è quella di verificare le parti intatte del mondo pensabile, di riprodurne prelievi e indizi, di offrire, in altre parole, un modello di conoscenza delle possibilità appena aperte sul reale. Coluccino si pone come personalità generazionale già ben definita, che lavora entro un patrimonio di apporti critici (con quello di Gramigna, spicca il lavoro capitale messo a punto in questi decenni da Agosti) e inventivi (in un arco che tiene conto del più storicizzato dei “mallarmeani”, cioè Greppi, ma giunge anche a contatto con certe micrologie implicite di procedimento dello stesso Zanzotto). Questo versante, avvertibilmente aggredito dal generale spostamento verso il basso messo in opera da gran parte della produzione poetica di questi anni, continua a opporre a una poesia contingente una poesia che legittima il proprio operare a partire dalla riflessione sulla specifica configurazione interna ai rapporti linguistici rappresentati nel testo. Quando, come qui, l’esercizio di questa responsabilità è connesso a una infallibile postazione gnoseologica, accadono godimenti anche emotivi di schietta e durevole intensità: ben oltre la crosta rassicurante dell’abituale inizia un’avventura di vertigine bambina, ricca di organizzatissimi contatti pulsionali. E questa realizzazione per così dire “organica” è lì, pronta per essere perfettamente socializzata: basta una buona didattica di base, un input, e il mondo si riscoprirà ben più ricco e strano. Ma chi ha paura dell’intelligenza?
Giorgio Luzzi, recensione a Quelle volte spontanee
in “Poesia”, n. 116, aprile 1998

Il lettore che si accosta a queste (e ad altre) prose di Osvaldo Coluccino è presto condotto ad alcune considerazioni: manca in esse un esplicito intento narrativo, un’evidente dimensione descrittiva, un deliberato svolgimento tematico. Tuttavia, elementi “concreti” sono agevolmente riconoscibili nei componimenti. La realtà da cui essi provengono non è peraltro omogenea: al contrario, essa appare sottoposta a costante frammentazione. Tale frammentazione sottintende una messa in causa della percezione che del reale l’individuo è indotto ad avere, per impulso esterno e per elaborazione interna. Pure tangibile è l’assiduo interrogarsi sulle correlazioni, sulle giunture che sembrano sorreggere il reale; da qui la ricerca di relazioni specifiche e plausibili, poste in atto, per quanto possibile, al di fuori degli schemi mentali e linguistico-formali precostituiti. Così, spazi differenti appaiono tra di loro avvicinati: fin dall’avvio di Leggenda «Si fondono spazi come vene», in Verso la Chaux-de-Fonds [ora intitolata Nuova partenza] si passa dal cielo alla terraferma alla laguna, in Il primo luogo da un «motel sprofondato» alla «sepoltura celeste». La natura non costituisce in questo caso la comoda gruccia sui cui effetti ha riflettuto Klee nei suoi Diari 1898 -1918 (n. 536): sopravvivono di essa brani, segmenti che prendono senso non in quanto sono in grado di significare in sé, ma dal loro essere parti “necessarie” all’interno di uno specifico organismo-testo. Analogo fenomeno si osserva sul piano temporale: ancora in Leggenda vi è l’uso del presente nella prima parte, del passato nella seconda; mentre in Nella nostra cura [ora intitolata Sana compensazione] al presente si affianca la prolessi. Quasi che in un punto possano essere compressi i momenti, anche divergenti, che compongono lo snodarsi del tempo […] Oltre a ciò i termini utilizzati non rinviano a un insieme lessicalmente omogeneo, ma a una pluralità di ambiti, dalla mitologia all’architettura, dalla musica alle scienze naturali (una simile situazione è presente nelle poesie di Strumenti d’uso comune, a proposito delle quali Agosti ha rilevato la «distanza semantica degli elementi» e la «grande distassia»). Accostamenti o sovrapposizioni di sfere contigue si hanno inoltre attraverso la sinestesia («o mio bianco appetito», «i fischi della visione»), gli aggettivi sostantivati e l’impiego del verbo ai confini della significazione («un respiro roda», «il palmo non fogli» [ora variato in «il palmo non si schiuda»]. 
    Quest’ultima espressione («il palmo non fogli») compare verso la fine di Concerto, testo che con particolare efficacia testimonia quanto fin qui si è detto. L’atmosfera da rituale che contrassegna l’esecuzione abitudinaria di una musica («il timbro abituale»), evocata con tono ironico, viene sovvertita dall’irruzione dei «cluster barbari». Cluster (“grappolo”), termine diffuso in specie nella musica della seconda metà del Novecento, designa un gruppo di suoni contigui saturanti un ampio intervallo (aggiungasi che barbara è anche una forma verbale non consentita dal codice). Proprio l’immagine del cluster può essere presa a emblema di un modo di operare dell’autore, spesso impegnato ad avvicinare, attraverso percorsi fortemente ellittici, realtà apparentemente inconciliabili. Al grappolo di suoni, o di immagini, è affidato il compito di colmare vuoti, distanze, assenze: con moto improvviso e vorticoso, del quale non di rado sembra costituire un segnale la figura dell’esclamazione (adatta ad esprimere l’emotività e gli slanci del locutore), che ampiamente ricorre nei testi. 
    Tra le commessure di questi spazi si fanno strada, alla fine di Concerto, un frusciare, un’aria mossa. E con insistenza aliti e respiri si insinuano fra i tessuti verbali di altre composizioni («solo un respiro roda», «sul proprio alito», «che distorce l’aria», «questo alito», quasi a voler rivendicare una loro sotterranea manifestazione.
Antonio Rossi, Su alcune composizioni di Coluccino
in “Idra”, n. 17, giugno 1998

Di Osvaldo Coluccino, sono uscite negli anni novanta due raccolte poetiche, Strumenti d’uso comune (1994) e Quelle volte spontanee (1996). La critica più attenta (Agosti, Gramigna…) ne ha subito individuato la forte singolarità, segnalandovi in particolare una volontà di rinnovamento integralmente posta al servizio dell’organizzazione testuale. L’autore poteva così legittimamente accedere a quella non stipata area di poesia italiana dove l’incontro con la creatività del linguaggio (e la produttività del segno) è ragione di vita, prima ancora che ipotesi da verificare in laboratorio. 
   Un motivo centrale dell’attrattività di uno scrittore risiede certamente nella sua capacità di “sorprendere” il destinatario al di fuori dei domestici lidi d’attesa; e cioè di sovvertirne le abitudini percettive, gli scenari d’uso, immaginali e linguistici. In quest’arte, che non diverge essenzialmente da un alto gioco di prestigio, in quanto vi è posta in gioco appunto la nostra illusione conoscitiva, Coluccino è maestro. Il reale è illusorio solo quando lo si pensi strutturato in griglie semantiche in se stesse operative, con cui il linguaggio debba poi stabilire relazioni di omologia. Ma una volta accertata l’inadempienza di un simile statuto, non si dovrà postulare il non senso o il silenzio del reale. Poiché esso, cifrandosi allusivamente dentro l’atto di parola – che è atto volontario, fondativo – continuerà a parlarci come mondo possibile, in grado addirittura di enucleare, proprio per il suo essere anche depositario di lontane iscrizioni, impensate periferie mitiche («Le ridenti Empuse sprigionando», «Inseguita da Sirene di carità», «Orlate di ninfe che claudicano vespri», «Lasciarsi forare con le pinne di minerva» sono sintagmi tratti da Quelle volte spontanee). Direi che è proprio su questa frontiera inosservata, o spesso velata da pregiudizi razionalistici, tra mondo illusorio (che possiamo epistemicamente decostruire ma non, quanto agli effetti, totalmente ripudiare) e mondo possibile (coesteso alla natura desiderante del linguaggio) che convergono le linee di forza dell’opus poeticum, in Coluccino. Siamo ben oltre, in questa congiuntura, alla registrazione di uno scarto tra referente (realtà) e segno, su cui gran parte della poesia contemporanea ha costruito la sua ragion d’essere. Ci troviamo ormai in una semiosfera dove i conti con questo iato, ampiamente lasciati alle spalle, non hanno più pertinenza nell’ordine del testo. 
    È come se Coluccino volesse riformulare su altre premesse, trasversali per così dire all’algoritmo saussuriano, l’iter di ricerca. Né mimetica né antimimetica, la poesia è chiamata a dare pronuncia testuale – con nuove idiomatiche regole di coerenza – all’eventualità di una combinatoria (“alternativa”) dei segmenti linguisticamente codificati del reale. Tale eventualità, volta a sfondare le linee di difesa di una supposta natura “metafisica” delle correlazioni date, è la medesima che, manifestandosi questa volta a parte subjecti, e quindi anche dentro i luoghi dell’elaborazione inconscia (vuoi dell’emotività), istituisce l’atto di poesia, come evento. […]
    Se la performatività del testo, nel suo promuovere il passaggio dall’eventuale all’attuale, è anche portata a secernere effetti di realtà tangibili, ecco allora delinearsi, dalle singole situazioni discorsive, altrettanti configurazioni sceniche correlate a un’ipotesi di mondo. Configurazioni tutte ad alta tensione visiva e acustica, in Coluccino (il dato sensitivo vi è sollecitato al massimo), che vengono costruite per politopia, o per meglio dire attraverso un processo di spostamento-condensazione, talvolta complesso, delle serie isotopiche relative al sistema dei “paesaggi”, degli “oggetti” e dei “personaggi”, indizio innegabile, questo, di una logica onirica cui pure l’operazione si affida. Il disegno metamorfico delle figure, ottenuto sovente per contiguità di elementi lessicali eterogenei, sembra concepito apposta – soprattutto nella seconda raccolta – per “evolversi” spontaneamente in azione, dunque per dar vita a situazioni di tipo narrativo, per quanto fragili o paradossali esse possano apparire. Sono nuclei diegetici in sé implodenti, o elusi in giochi d’incastro, o scintillanti per brevi attimi come visioni fiabesche, sufficienti tuttavia a creare l’illusione di una scenografica precostituita a largo spettro che ha la proprietà di traslarci in contesti metatemporali, edenici o mitici, a tratti, come si diceva. Il gestire, allora, diventa funzione dell’atto rituale (un brindare, un fissare il cielo…), mentre il componimento assume l’allure della danza, inseguendo le tracce di misteriose «Sponde Armoniche». Quell’indice di narratività appena abbozzato nelle poesie assurge al ruolo di marca discorsiva – ancorché discretissima – in questo frammento inedito tratto da Appuntamento. […] 
Gilberto Isella, Appunto per Osvaldo Coluccino
in “Bloc notes”, n. 40, Lugano 1999

Una ricchezza metaforica fuori dal comune è anche lo stigma della poesia-pensiero del giovane (1963) Osvaldo Coluccino. Giuliano Gramigna nel presentare il suo volume Quelle volte spontanee ha richiamato situazioni tipiche della poesia di Vico, o di Campanella: laddove l’energia metaforica è «un gesto di conoscenza, un gesto demiurgico, rituale» (p. 36). Giorgio Luzzi, recensendo lo stesso volume (“Poesia”, 1998, n. 116, p. 63) ha sottolineato come «un processo di questo tipo abbia una missione ben precisa, che è quella di verificare le parti intatte del mondo pensabile, di riprodurne prelievi e indizi, di offrire, in altre parole, un modello di conoscenza delle possibilità appena aperte sul reale. 
Andrea Cortellessa, Per una parola liminare.
Alcune direzioni di operatività nell’ultimo quarto di secolo,
in Verso l’inizio – Percorsi della ricerca poetica oltre il Novecento,
premessa di Edoardo Sanguineti, Anterem, 2000

Nell’arco dei dieci anni entro i quali l’anagrafe li contiene, incomincerò a parlare di Osvaldo Coluccino (1963) cui la sorte (o la scelta?) ha offerto di crescere e vivere e lavorare nella città natale di Contini, ma anche di configgere in una condizione a buon diritto professionale quell’attitudine all’ “orecchio” che un po’ tutto il Novecento, da Montale a Caproni a Raboni, ci ha insegnato essere un segreto tanto a portata di mano quanto spesso inosservato in ordine alla riuscita dei testi. Coluccino è un compositore assai colto, di derivazione rigorosamente postweberniana attraverso la gemmazione delle avanguardie europee meglio rappresentate. In poesia i suoi percorsi-pubblicistici sono altrettanto selezionati: dal “Verri” ad “Anterem”, da “Poesia” a “Idra” a “Bloc Notes”; e altrettanto singolari i suoi lettori critici, da Agosti a Gramigna, da Gilberto Isella ad Antonio Rossi. Le notizie di contorno hanno già ampiamente identificato l’area di comportamento di questa scrittura, della «sua capacità di “sorprendere” il destinatario al di fuori dei domestici lidi di attesa; e cioè di sovvertire le abitudini percettive, gli scenari d’uso, immaginabili e linguistici» (Isella). Questo universo di «mondo possibile» (Isella) anziché intrattenere rapporti di qualche tipo con la “realtà” mette in crisi l’esistenza stessa della realtà come funzione convenzionale entro la quale l’accadere viene ricondotto. Fuori da questa strettoia o forzatura erompono segmenti rituali e al limite «performativi» (Gramigna) la cui messa in scena viene condotta, come nel testo qui riportato, per mezzo della segnaletica (artificiosa) dell’enfasi: tratti sovragmentali, convenzioni grafiche del silenzio, finzioni parentetiche della ipotassi. Il tutto al servizio di una situazione che non c’è eppure è costituita autoritativamente come legittima contro un mondo nel quale le relazioni tra la cosa e il suo profilo simbolico sono state private del conforto dell’eventualità (e della falsificabilità). Ancora un frutto prezioso e autorevole dell’albero mallarmeano. «No… quel labbro azzurro osato!… / Sentendosi cieli incredibili / Puntella platini inclinati! / Ah ghermiti (benché vi tremasse) / Dentro il vaso di braccia / Che tessevano lo iodio dello sciame ignoto, / Le ridenti Empuse sprigionando / Gli oceani d’ostie… accalorando: / Nella fedeltà, nell’infedeltà.»
Giorgio Luzzi, Piemonte e Novecento: percorsi della poesia,
in Cultura del Novecento in Piemonte: un bilancio di fine secolo,
Atti del Convegno, San Salvario Monferrato 5-8 maggio 1999,
Edizioni della Biennale Letteratura, San Salvario Monferrato 2001

[…] La lettura dei suoi testi costituisce innanzitutto un’esperienza mentale: c’è da chiedersi cosa accada alla mente quando si trovi sottoposta al processo di decodificazione di questi testi, quale sia per la mente il percorso riassuntivo del reale di esperienza che le occorre attivare in vista di questo scenario a-reale che il testo predispone. Il tempo che il testo impone è un tempo storico avverso a quel perpetuo essere nel presente che i processi di reificazione tendono oggi a imporre non solo alla comunicazione spettacolare ma anche a quella artistico-letteraria, così da omologare quest’ultima a sub-specie involgarita dell’intrattenimento. Il tempo del testo di Coluccino si oppone violentemente all’epilogo: poiché ritiene essenzialmente che ciò che ci è stato consegnato non abbia esaurito la propria energia né la propria capacità di rivelazione, il testo ci impone di ricorrere allo strumento interpretativo del tempo-memoria, che amplia in dimensioni indefinite il tempo-durata della fruizione. La parola, come la specie, vanta una propria sostanza (onto) (filo) genetica e compito della letteratura – che è una forma universale dell’archivio o enciclopedia dei saperi – è conservare il valore del tempo-memoria senza perdere il godimento del tempo-durata; ciò accade solo in presenza di una letteratura forte e quella di Coluccino indubbiamente lo è nel fare in modo che, in forza della sua autorevolezza, l’esperienza di attraversamento del testo non lasci le cose come prima, che il progetto di vita immaginativa del fruitore ne esca scosso e pensoso, costretto in crisi dall’evento del confine. […] 
    Attraverso questa sequenza di microracconti – posizioni dell’essere illusorie, crudeli e seduttive, situazioni dell’eros e della ferocia come i deliri e gli stati onirici ci hanno insegnato a configurare, formicolanti paradossi prodotti da una chiarezza sovraesposta – la denotazione del quadro descrittivo è tanto più piena ed esemplare quanto più il contrasto con la parte del mondo che vi viene “tradotta” è letteralmente sconvolgente. Solo il ricorso al tempo-memora della parola storica e viva ci permette di ricostruire, almeno in parte, la logica di questo contrasto. 
    Vediamo perciò alcuni aspetti del quadro metamorfico del linguaggio-vita, che fanno sì che quest’ultimo assuma, nel farsi coscienza del carattere testimoniale della propria separatezza, la storia del mondo nella storia di se stesso. L’uso maiuscolo dei nomi comuni (intensificato dall’apparire del suo opposto), veicolo sibillino e frontespizio dell’allegoria, è uno di questi procedimenti legati al metamorfismo: l’Avara, il Rampollo, l’Abitudine, il Reale (!), ecc. Il fenomeno, sprigionante da antica vita della tradizione del testo, sembra situarsi anche entro la tradizione antropologico-iniziatica dei tarocchi, nella assunzione magico-orientativa (e animistica?) del consueto, risvegliato dall’inerzia grazie al protagonismo conferitogli dal suo status di parola come idea-guida du jour, dal suo balzo fuori della cinta della denotazione vissuto come primo ingresso dell’estetico nei ceti primari. Il giovane René Char, all’altezza, diciamo, di Moulin premier (1935-36), ha di questi espedienti: Entrepreneur, Elagneur, Chasseur, ecc. Ma ha – la tradizione prossima di questo offrirsi della scrittura all’ampiezza dell’esperienza mentale è troppo nota perché sia necessario soffermarcisi – anche un passaggio come questo, molto strettamente spiovente su un luogo di Coluccino: «La connaissance productive du Réel | Aspirant vulnérable | Ne se remporte pas d’après une mesure compliquée de larmes une construction joyeuse de resus | Mais est obtenue par une sorte de commotion graduée de fortune […]». Coluccino (Palazzo Reale): «La sorella dei sussurri in galleria dimora solo per l’occasione sciupata — le trame volgari le fanno incurvare e evadere il secondo piano del Reale.» Dopo aver notato che il percorso interpretativo, prima di prendere il largo, deve avvistare gli almeno tre strati di senso del lessema-chiave “trame” […]
    L’ambivalenza del significante ha già costituito momenti forti nella produzione del nostro scrittore, andando a dar corpo al titolo di un libro comparso cinque anni fa presso questo stesso editore, Quelle volte spontanee. Sul sostantivo c’è la testimonianza, in questa sede davvero rara e preziosa, di Yves Bonnefoy. Si tratta di un passaggio della Lezione Magistrale pronunciata in occasione del conferimento della laurea h. c. all’università di Roma nel gennaio scorso: […] È stupefacente osservare come questa pagina di Bonnefoy può essere pensata quale risposta inconsapevole a uno dei componimenti di questo libro presente, L’arco diviso; è come se la conclusione disgregata e il quadro di inconciliabilità («Così come sono ci ricongiungeremo solo nel punto del quale non si avrà mai ricordo») del poeta giovane trovassero una risposta e una smentita nei tratti dell’ombra virgiliana di un interlocutore a distanza in grado di scoprire il punto di sutura e di equilibrio («l’instaurazione dell’essere») della volta. Non credo esista altro se non lo spazio letterario, diviso tra luogo mentale e luogo interiore, che sia in grado di assicurarci emozioni di questa portata; purché, appunto, luogo mentale (riflessivo e culturalizzato) e luogo interiore (emotivo e percettivo, deterministico e istintuale) si trovino in posizione di reciprocità.
    Ma molto si potrebbe proseguire sulla via dell’analisi di forme ricorrenti di trasgressione in un testo preso letteralmente “a caso”: è anche possibile farlo, purché si considerino questi procedimenti “trasgressivi” non come episodici e sperimentali, bensì come sistematici e fondativi. Sistematici: interni al progetto o sistema, attraverso il quale si alza la tensione all’annuncio della universalità dell’archivio e, in esso, una valutazione delle attitudini del “mondo” da sottoporre a verifica. Fondativi: funzionali ai fondamenti diradati e spogli attraverso i quali la crisi della temporalità si pone essenzialmente come grande tema censurato e perciò pressante in ogni microscenario del mondo come teatro e come spazio di relazioni. 
    […] E ci sarebbe da impegnarsi ancora nel ri-velamento di queste strutture e dei meccanismi che le governano e delle forme del mondo che l’autore intende occultare, presumibilmente come provvisorie o imperfette, a fronte della non scalfibilità dei nomina, veri protagonisti di un mondo conquistato e compiuto nella mente contro l’uniformità e la bassezza delle res. Che ci sia qualcosa del virus nominalistico, in questo emozionante lavoro? Qualcosa che eleva i nomi a una sfera intermedia tra la physis e l’Ente, e che perciò recupera un che della antica idea del poeta demiurgo, o dio demiurgo tout court? Tra piacere del testo e tentazione gnostica, la disponibilità di questa scrittura a lasciarsi interrogare è veramente inesauribile. 
    Si potrebbe concludere che, come in ogni poeta forte, anche in Coluccino vi sia una natura elitaria e dispotica, pari alla scarsa o nulla disponibilità a venire a patti con il “buon senso” e con il ricatto delle “regole”. Per quanto mi riguarda, posso limitarmi a raccomandare la lettura reiterata di questo libro come esercizio di ristabilimento del gusto, come antiossidante e come potente rinvigorente mnemonico. Per esempio, chi ancora abbia a cuore l’intelligenza potrà intrecciare il contatto frantumato di questi gioielli all’avvistamento di esemplari della resa e del ripiego: si accorgerà di quale attenzione etica alla storia e alla memoria Coluccino sia capace, di quale disperata dignità parlino questi suoi testi nel tempo dell’epilogo.
Giorgio Luzzi, postfazione ad Appuntamento
Anterem, Verona 2001

[…] Una situazione espressiva di questo tipo non è di pertinenza esclusiva di Greppi. Essa contrassegna la linea più interessante della sperimentazione poetica contemporanea, il cui capostipite potrebbe essere, più che Mallarmé, il Rimbaud dei Derniers vers e delle Illuminations […] A tale linea si annetteranno – per l’ambito nostrano – sia certi componimenti di Ungaretti nelle sezioni iniziali del Sentimento del tempo, sia, in toto, l’esperienza pur primitiva, “barbarica” di Amelia Rosselli, sia, infine, le esperienze di autori anagraficamente più giovani, come quelle di squisita, raffinatissima complessità, di Antonio Rossi e Osvaldo Coluccino. […] È in definitiva la linea dei “syntaxiers”, ove le divergenze semantiche, a volte spinte sino all’estremo della tollerabilità (vedi le eccezionali prove di Coluccino), si attuano all’interno di una ineccepibile chiusura formale (sintattica) dei testi.
Stefano Agosti, in Poesie scelte di Cesare Greppi, 
Anterem, Verona 2001
                                                                                       
Non tutti i poeti italiani significativi godono di quella “visibilità” (uso, per farmi capire al volo, un’espressione in sé ambigua) che meriterebbero. Di ciò è responsabile, molto spesso, il grande mercato editoriale, che vuole evitare ogni rischio continuando a promuovere voci già note […] [Appuntamento] si articola in quattro “episodi” o prose poetiche percorse da una riconoscibile, seppur sorprendente per effetti di “straniamento”, vena narrativa. […] scorrono davanti a noi brevi cerimoniali attinti alle partiture più intime della vita del soggetto, visite a luoghi incantevoli dentro l’inconscio naturale o urbano, intonazioni musicali di stagioni (l’autore è anche esperto compositore), come in questa “impronta innica” lasciata nel mare da un quasi imponderabile flauto: «Il labbro che soffia nella dolce folla di sorgenti accende il mare e la notte di seta e ne gocciola la spiaggia organica di danze preziose.»
    Danze preziose, certo, festoni di racconto destinati a un lettore che sia rotto alle avventure della mente. Da tempo, infatti, Coluccino ha lasciato dietro di sé la questione della discorsività di primo grado come supporto all’agire letterario. Il lavoro testuale, a partire dal gesto inventivo che lo pone in atto, rappresenta per lui uno scenario di trame linguistiche, di entità discorsive in movimento (lungo le reti combinatorie più impensate della parola) dove il «reale d’esperienza» (Luzzi) risulta già profondamente secondarizzato, elaborato da un tempo interiore assoluto, diciamo confinato ai bordi enigmatici (mitico-onirici, sovente) dei propri territori. E allora avremo il «Palio di moschee chiare lungo la notte santa», o «Le mura aromatiche accecate». Non si tratta solo, qui, di sottrarre l’esperienza alla sua fattualità, ma anche di affrancarla dalla cornice del “dicibile” in quanto operazione mimetica. Si tratta, cioè, di individuarne i profili incogniti dentro la sua massa significante, trasformarla in galassia di senso attorno ai nuclei energetici della parola, qui mallarméanamente e sorgivamente “autoritaria”.
Gilberto Isella, La forza energetica della parola,
in “Il Giornale del Popolo”, Lugano 18 ottobre 2001

[…] È da indagare la proposta di una letteratura come espressione altra, fermamente opposta al mondo e alla struttura linguistica che lo rappresenta e rende abitabile. Sarebbe anche da considerare, questo [Appuntamento], come un libro che esperimenta la forza di coesione della lingua: a quale espansione la lingua può arrivare, a quale sottrazione di pressione la lingua può resistere, ossia quanto è forte il legame tra parola e parola in rapporto alla resa del senso? Si accosti la lettura del precedente Quelle volte spontanee (1996), testo astratto ma dominato da oggetti solidi, netti, palpabili, sistemati in un’atmosfera nebulosa che non permette la proiezione dell’ombra, un universo instabile che suggerisce spaesamento e tensione onirica […]
Sandro Montalto, Alcuni percorsi di ricerca letteraria
recensione ad Appuntamentoin “Il Segnale”, n. 60, ottobre 2001

[…] queste poesie sono come immagini che portano impresse le impronte in ricordo degli eventi; la sensazione è quella di una fragilità al di sopra di ogni collocazione e di ogni epoca. Le soggettività ritratte restituiscono «posizioni dell’essere illusorie, crudeli e seduttive» (G. Luzzi) e fanno sì che questa poesia “sommatoria”, creata da uno sguardo simultaneo che il poeta è andato elaborando in solitudine, sia in antitesi perenne al dualismo e al contempo la ferita di un doppio io; colpisce soprattutto l’ars combinatoria, dove ogni immagine sta sopra ad un’altra senza però cancellarla, sebbene il poeta mantenga aperta la via della ripercorribilità di un passato, in cui si immerge per vivere il presente.
    Proprio inserendo il presente nella fatalità del passato, Coluccino mette in atto l’interazione disgiunta di memoria, esperienza e finzione, in modo che le storie che si riferiscono a diversi momenti temporali vengano poi presentate simultaneamente e con una certa dose di sterilità e cinismo. È come assistessimo alla rappresentazione (teatrale?) della riduzione fenomenologica di un mondo messo tra parentesi; non è casuale che i personaggi che ravvivano le quattro sezioni del libro siano stati plasmati con ironia, talvolta disprezzo e par di sentire le loro voci, le loro risate, le discussioni e le conversazioni animate («Si sprecano […] brindisi e cascimir, e la verbena a assecondare quei sorrisi mensurali […]»).
    È giusto pensare a René Char, come indicato dal prefatore del libro, non solo per alcuni espedienti linguistici, ma soprattutto per quel cammino all’indietro che, come faceva già notare Giorgio Caproni, «risveglia e scopre, non inventa» […] Si ha l’impressione di scrutare esseri privi di identità, chiusi in un luogo privato ma carico di allarmi, dominati da un ordine metafisico che partecipa dell’ordine fisico, ma con in più una promessa di profondità e di intimità, spesso di alterità teatrale, che circoscrive il tutto con un’aria cerimoniale. Non per nulla è lo stesso prefatore che parla della «disperata dignità nel tempo dell’epilogo» nella poesia di Coluccino, dei procedimenti stilistici che vengono definiti “trasgressivi”: infatti il lessico, i toni e gli stilemi bassi, quotidiani e prosastici ne sono il processo di contaminazione, e gli equilibri imperfetti, gli arresti acrobatici, il procedimento di lettura delle cose vengono utilizzati come evento dissimulatorio.
    […] pensiamo anche all’altro verso gozzaniano «Odore d’ombra! Odore di passato! Odore d’abbandono desolato!», dove il poeta sbiadisce, astraendosi da ogni pedaggio referenziale, riducendosi a “immagine d’avvio” come se l’identità, divenuta memoria personale e insieme icona, si fosse persa tra gli stereotipi delle figure del passato. Usando un’espressione cara a Gozzano, potremmo dire che Appuntamento è il poemetto “di ciò che poteva essere e non è stato”; il ricorso al «tempo-memoria» (Luzzi) infrantosi nelle crepe e nelle défaillances del quotidiano. La fisicità del rapporto con le cose, con gli oggetti e con gli ambienti, viene filtrata dall’iscrizione costante di un pensiero; ma in questi ricordi nulla dà durevolezza o eternità, tutto è fragile, effimero e deperibile. Con «la chiave meravigliosa della casa dei genitori morti» (L’attimo prima), siamo entrati nel futuro grazie alla fatalità del passato, ed è con questa modalità espressiva (vera e propria “offene”) che il libro di Coluccino ci appare come evocativo. 
    Se la poesia ha evidenziato una crisi di espressività, o peggio ancora una crescita di fredda retorica, perdendo non solo l’attenzione al dettaglio e alla “tecnica”, ma anche il senso delle iconografie, nella sua poesia Coluccino ha ridato espressione al linguaggio, costruendo un libro che è un insieme di episodi, una moltitudine di espressioni e figure eloquenti. «Sarai, nei focolari straziati, una sola maschera di genìa; e il torvo locandiere mi ricompenserà ignorando del tutto la mia tarda sagoma» (L’arco diviso) […]
Antonio Curcetti, recensione ad Appuntamento
in “Hebenon”, n. 9-10, aprile-ottobre 2002

Parlerò, dunque, di Appuntamento. Ma ecco che l’oggetto poetico già mi appare sfuggente, non concedendosi alla contemplazione, e aprendo un confitto tra presenza e assenza. «Quel sole, fondale di zebre, dopo i calvi ori e alle vetrate sui mari la mano d’ocra a simularlo. L’ingente veleggiare delle estesi sino al gorgo d’arniche. Lei, raggi con grazia di ventaglio sulle spume elette». Dove siamo, di quale sole si tratta, in che tempo, rispetto a quale occhio? Chi vive le estesi di cui si parla? E chi è lei, la donna a cui, stilnovisticamente, si attribuiscono qualità solari («raggi con grazia di ventaglio»), come alla donna di Cavalcanti «che fa tremare di chiaritate l’aere»? […] O ci vengono esibite parole che non formano nessuna immagine, neppure platonica, di Realtà? Coluccino ha un Maestro, uno dei fondatori della lirica moderna, Mallarmé, in questa soppressione della Cosa «per indicare il penetrare dello sguardo nell’infinito della trascendenza», o, meglio, forse, nell’infinito della «dissonanza ontologica» (Hugo Friedrich, La lirica moderna) tra Essere e Ente, Linguaggio e Rappresentazione.
[…] Con chi, dunque, il poeta ha preso il suo appuntamento? Con noi lettori che sta prendendo nel suo gioco di concatenazioni di parole? O egli stesso è preso dentro il suo gioco, nel quale si avviluppa e ci inviluppa per vincere le resistenze (l’impensato, il represso, il rimosso), e trovare il suo soggetto, mettere a fuoco la sua idea del mondo?
In un saggio di Maurice Blanchot, L’espereinza di Mallarmé (in Lo spazio letterario), lo scrivere del fondatore della lirica moderna viene additato «come una situazione estrema che implica un rovesciamento radicale», e proprio sviscerando il verso incontra due abissi che lo gettano nella disperazione, uno è il Nulla e l’altro è la morte: «Sviscerando il verso il poeta entra in quel tempo dell’angoscia costituito dall’assenza degli dei. Parola stupefacente. Chi sviscera il verso, sfugge all’essere come certezza, incontra l’assenza degli dei, vive nell’intimità di questa assenza, ne diventa responsabile, ne assume il rischio, ne sostiene il favore». Questa esperienza implica, come elemento fondamentale, «consegnarsi al fascino dell’assenza di tempo, o, in altre parole, opporsi al divenire nientificante, rifondando, nel vuoto, un programma di incorporazione del tempo nella scrittura. Dopo più di un secolo e mezzo di poesia moderna, dopo Baudelaire. Rimbaud, Mallarmé, Valery, Eliot, Rilke, Pound, Benn, Celan e oltre, “i problemi della lirica” (per quanto possano essere stati desublimati dalla compromissione con poetiche legate alle tematiche temporali e storicistiche), solo a questo livello si riconnettono alla essenza della filosofia contemporanea che «nella sua essenza distrugge inevitabilmente la tradizione occidentale perché mostra l’impossibilità di ogni eterno e dunque di ogni verità immutabile ed eterna» (Emanuele Severino, L’anello del ritorno), ma aprendo lo spazio di un’alternativa, la rifondazione dell’eterno e dell’immutabile nella scrittura.
Coluccino (classe 1963), che potrebbe rivolgere a gran parte dei suoi coetanei un celebre aforisma di Campana («Viene alle lettere una generazione di ladruncoli. Chi vi insegnò l’arte del facil vivere fanciulli?»), saltando oltre la koinè lirica dominante, ha scelto per sé la strada più difficile, istallandosi nel cuore, appunto, problematico dell’alta lirica moderna e consegnandosi “al fascino dell’assenza di tempo” della scrittura. Si potrebbe dire che se quasi tutta la poesia antologicamente canonizzata a livello nazionale tende a stare dentro il proprio tempo – secondo la strana concezione di un progresso o di un arretramento del sentimento poetico – (e su questa base difenda saldamente il codice letterario delimitandolo rispetto ad altri codici conoscitivi), una parte, forse più in ombra, ma a mio parere ben più interessante, di produzione poetica contemporanea opera nella prospettiva di un superamento dei codici, che significa, principalmente, un farsi carico di una problematica ontologica. In altre parole, la poesia, insieme alla filosofia, che si interroga sul senso dell’essere, oltre Nietzsche e la distruzione dell’ontologia classica.
 […] Constatata la difficoltà di una traduzione lineare del senso [di Appuntamento] […] torniamo dunque alle parole come entità separate, e alla Rivelazione di Verità, di una verità, ovviamente, che si rifrange all’infinito come senso per la singolarità dell’esperienza, ed è inversamente proporzionale al grado di verosimiglianza con un evento specifico, ma piuttosto si dilata in una dimensione altra rispetto a questo mondo, generando lo spazio di una polisemia decodificabile solo in base alle regole del fare che l’ha prodotta. 
       […] «Potete imparare l’equilibrismo, la danza sul filo, a posar nudi in equilibrio, imparare a correre sui chiodi, ma collocare le parole in modo pieno di fascino, o lo sapete fare o non lo sapete… Le parole toccano qualche cosa di più che notizia e contenuto, da un lato sono spirito, ma dall’altro hanno la sostanzialità e l’ambiguità delle cose della natura» (Gottfried Benn, Problemi della lirica). Ora Coluccino si è posto su questa lunghezza d’onda fin dalle sue prime prove, ma nelle modalità solo possibili dopo Nietzsche, e dopo il lungo tramonto delle avanguardie, all’altezza delle tematiche della filosofia contemporanea nelle varie riproposizioni di rottura della tradizione e di rifondazione di un orizzonte ontologico. […] 
    Di che cosa, dunque, ci parla Coluccino in Appuntamento? Dei minimi eventi della quotidianità, ma di una quotidianità sub specie aeternitatis. Nell’eternità l’attimo come presente o presenza viene dissociato dal passato e dal futuro, dal flusso del tempo, e quindi isolato come attimo che non fugge o concentrazione di passato e di futuro, ovvero come immobilità, assenza di durata, gioia di risplendere nel Nome. […] ogni immagine è colta in una struttura non lineare, non sequenziale, non causale e inscritta in un plesso tempo-spazio teso a mettere in rilievo che i tempi accadono in realtà nello stesso tempo, ovvero che le esperienze esistenziali non sono lineari ma istantanee, e che al di fuori di tale simultaneità il tempo non ha significato. 
    […] Qual è, dunque, il luogo del poema di Coluccino, là dove egli ci aspetta? È la negazione del tempo, del divenire, e, con il divenire, della violenza e della tristezza – della “volontà di potenza” insita in ogni processo di creazione e distruzione della Natura, e anche di un conoscere umano asservito alla “volontà di potenza”. E forse l’Appuntamento avviene proprio qui, dove la poesia può incrociarsi e dialogare con il pensiero «nell’apertura silenziosa dell’interrogazione sulla storia come finitezza e violenza» (Jacques Derrida, La scrittura e la differenza), o sulla ricreazione di un senso possibile oltre la morte di Dio. Ma non vorrei caricare di troppe implicazioni e responsabilità la delicata trama di un testo che si costruisce in un nodo di sottili ambiguità che la critica può solo indagare ma non risolvere. Ne va della poesia.
Tiziano Salari, Il luogo del poema di Osvaldo Coluccino
saggio su Appuntamento, in “Microprovincia”, n. 40, 2002

[…] il più giovane Coluccino, che sembra aver respirato il fiato di Rimbaud tanto che le sue prove – isolatissime e uniche nell’attuale produzione italiana – ne ripropongono intatta, ancora fresca e nutritiva, l’originaria esperienza
Stefano Agosti, La lingua dell’evento, in Forme del testo
(Linguistica, semiologia, psicoanalisi), Università di Venezia Cà Foscari,
Cisalpino (Istituto Editoriale Universitario), Milano 2004

La scrittura di Osvaldo Coluccino indica una realtà come responso. Si legge come musica e lascia intendere a che cosa la realtà corrisponda. È una realtà dove qualcosa viene presentato, reso presente. […] La presenza che Coluccino ci indica non è semplicemente ciò che permane esposto allo sguardo e disponibile, a portata di mano. È presenza di un altro tipo. Come la “presenza” che si dice qualcuno avere quando è immobile, ben composto, oppure quando entra in una stanza e, varcata la soglia, lascia entrare con sé, come dono, tutto un mondo. Una presenza che, a volte, non ha a che fare neppure con un che di “materiale” e visibile: in un suo seminario Heidegger parlava della “presenza” della campana nel villaggio che si diffonde con i suoi rintocchi.
    La scrittura di Coluccino rende presente, e si fa presente, proprio perché comunica, mette in comunicazione, con una dimensione lontana rispetto alla presenza semplicemente intesa, nei suoni delle cose e nei rintocchi delle parole. È una comunicazione in cui si resta in Presenza di un Altro, come quando “leggendo” un’icona e fissandone a lungo lo sguardo, si resta, anche in sua assenza, come osservati. Si guarda altrove e ci si avverte visti. Attraverso la scrittura composta di Coluccino si è in presenza di un’esperienza di lettura in cui non si pensa al senso della scrittura, in quanto esso, semplicemente, è lì. 
    «Sfuggivano, involte, / E spirano, erose. // Sotto, gettato ruvido, belle sciolte, / Gratta – infinta sete – / Speciale trivellandone frutta, / Più in là, il tempo giusto / Di mutarsi azzurre» (da Strumenti d’uso comune). […] La natura di questo procedere, di cui a ogni passo si avverte la presenza, ama nascondersi.
  A prima vista sembra consistere nel continuo, ripetuto eccedere della metafora (una parola che in sé è già metafora: spostamento, viaggio) dai significati cui si destina; come nuvole, sospese tra due dimensioni, che si addensano e si diradano e che tornano, così, sempre più numerose delle cose che sono in cielo e in terra. Nuvole di senso, in Coluccino, che si condensano e si spostano. È lo stesso procedere in cui ciò che è passato e ciò che è “presente” – ricordi, esperienze, visioni – […] si confondono, sovrapponendosi e, paradossalmente, mai cancellandosi. 
    «Canto fermato col salice dei diademi / Ormeggiato nei fianchi ronzante / Di un rosaio di collant e letti. / Eea confinata – che da solo non travolga / Inesauribile di brama rosseggiante – / Tronca il dispetto d’essere, / Se non una luce mortale arginasse / L’infelice corsa innamorata, Come nasce, / un gioco di eterno» (da Quelle volte spontanee).
    Uno sguardo che non ha posto tra le cose e sposta le parole – come si fa in viaggio: si conserva, si riprende, si cambia di posto – ma allo stesso tempo o in un colpo d’occhio tenendo a distanza e avendo “presente” la sintassi delle cose. È un’altra grammatica, in cui il presente rimanda necessariamente al suo rovescio temporale – l’eterna stabilità […]  Nietzsche ebbe a dire che non ci sbarazzeremo dell’idea di Dio finché crederemo nella grammatica. A fargli eco, Wittgenstein ripeteva che in ogni goccia di grammatica è condensata una nuvola di metafisica. Emerge qui il senso nascosto di quel procedere che, a prima vista, si presentava come eccedere della metafora. Tutto ricorda qui il movimento necessario di una anamorfosi, il cui punto decisivo tuttavia non sia indicato né presente, ma affidato al composto scorrere di ogni lettura. 
    «La muta drammatica di essenze; che sopra tutti i prati e le deiscenze e le serre veneree trama i fili inconfessabili, progenie in abbaglianti lave. // Ghiacciati i velli inerti dei petali, il pensiero che non li svelò sotto la malia della scorta d’estate, il nostro mito esploso, o sorgenti o fine corallosa, il nostro pericolo esiliante.» (da Appuntamento).
    Non è il gesto mimetico condannato da Platone, quanto la mimesi più profonda, che da Aristotele a Plotino a Schelling è colta nel gesto dell’artista: saper cogliere “il ritmo interno delle cose”, renderlo presente, invitando chi legge ad accogliersi nella vita “idiorritmica” di questa scrittura. 
    Il comporre di Coluccino è, in questo senso, finalmente im-posizione: nel senso di “dare il tempo”, come rendere presente il ritmo interno delle cose. È un imporre che – in quanto tale – obbliga, ma nel senso obbligato del cor-rispondere. In questa corrispondenza si è chiamati, necessariamente, a un altro modo di scrivere. 
    […] Da compositore Coluccino sa bene che la musica scaturisce dal silenzio e al silenzio ama destinarsi, così come dal silenzio è sempre attraversata. Attraversare il silenzio, l’inespresso, il taciuto; leggere è accogliere: percorso e disciplina dell’accoglienza. 
    Lontanissima da ciascuna delle false cortesie della “leggibilità” – quella sì imposta e con violenza – lo stile di Coluccino è disponibilità della scrittura a lasciarsi interrogare. 
    Davanti alla grotta di Cuma, Enea pregava la Sibilla di non affidare i suoi responsi alle foglie, che scomposti non volassero confusi in preda al vento. La corrispondenza lunga, lenta, silenziosa con Coluccino suggerisce, invece, di guardare in quelle foglie; sedersi, in silenzio aspettare, e capire.
Lucio Saviani, Osvaldo Coluccino, «La muta drammatica di essenze», 
in “Romanzieri.com” e “Poesia da fare”, IV Quaderno, dicembre 2004

Nelle prose poetiche di Coluccino occorre, per farle agire, che ci installiamo in esse mettendo in discussione «l’autorità della presenza o del suo semplice contrario simmetrico, l’assenza o la mancanza» (Jacques Derrida, La différence). Dunque la scrittura ci vuole portare in qualche regione indeterminata in cui il senso dell’essere non è più affidato alla presenza o all’assenza ma a qualcosa che prescinde da entrambe, producendo un effetto di spaesamento. La Realtà, se vogliamo definire così i solidi contorni delle cose che ci circondano, si liquefa in un aggiramento metaforico che altera sia il suo lato attuale (ontico) che ontologico, ma paradossalmente, in senso opposto all’Unheimliche freudiano, accrescendone la familiarità e la prossimità piuttosto che la distanza. Episodi minimi, o dettagli di oggetti, vengono ingigantiti all’inverosimile, e resi unici nell’apparizione, come la rosa di Fleuri, che rifulge senza un perché, come la rosa del mistico Silesius. Si dice nel Pellegrino cherubico: «La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, / A se stessa non bada, che tu la guardi non chiede». Scrive Coluccino: «La rosa, prostrata a un’iperbole d’aroma e rosso, conduce invero un suo, coltivato con le bende sul sole, progetto d’arridere, secondo un reticolo di celate scienze, e sibila che, chi si allunghi nel travaso di esistenza oltre cui splende, è lambito dal suo segno imperituro». Alla stessa stregua potremmo citare Wittgnstein: «Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è». E la questione essenziale che quest’ultimo libro di Coluccino solleva, come i suoi precedenti, è ancora una volta quella del tempo. Il tempo sembra non fluire tra queste pagine, l’evento sembra prepararsi ma non accadere, e come nei Poèmes en prose di Mallarmé, ad esempio in Le nénuphar blanc, in cui il poeta, remando in solitudine sul fiume e accostandosi a un parco dove dovrebbe incontrare una Signora, avverte la presenza de “l’inconnue”, un impercettibile rumore di passi che si allontana, e su questa «vierge absence éparse en cette solitude» coglie «en mémoire d’un site, un de ces magiques nénuphars clos qui y surgissent tout à coup, envellopant de leur creuse blancheur un rien, fait de songes intacts, du bonheur qui n’aura pas lieu», rinunciando all’incontro nel reale, così al termine della «drammaturgia d’un erbario» inscenata in Fleuri, non è accaduto nulla. «Nulla è successo, nulla». L’inattualità di Coluccino, in una post-modernità fin troppo folta di presenze, di atti compiuti, cose consumate, sta in questa sospensione del tempo al di qua dell’urto con il reale, o meglio nella delimitazione di uno spazio (il poemetto) che preservi l’illusione di una bellezza inviolata. Spazio di scrittura che è anche lo specchio di una sensibilità ferita che scava intorno a sé una zona di silenzio per porre un argine alle pressioni dello spirito del tempo. Ma qual è dunque lo spirito del tempo e in che cosa consiste l’inattualità di Coluccino rispetto a esso? Che cosa significa essere inattuali dopo che sopra di noi è passata l’onda di tutta la poesia del Novecento, avanguardie, restaurazioni, desublimazione del linguaggio, perdita dell’aura, fino all’esplosione post-moderna di stili e contaminazioni? Deve essere chiaro che l’inattualità non consiste nell’essere fuori dal tempo, ma nell’esservi dentro intensamente, fino a far valere la singolarità minacciata in un nuovo accesso alla parola, all’origine. O, meglio, alla cosa che sopravvive soltanto attraverso il nome. Solo un paio di citazioni: «Una piazza rotonda illimpidita – il mondo! – liberata da accerchiamenti inessenziali» (Cerchi) o «Gli si offre illuminato ponte, edificato da idealità mastodontiche, riscosso da pie correnti d’epoca, riassunto nello smanioso, che di ricompense arride, sogno d’arrivare oltre. Ai fianchi il fiorame serpeggia: misericordia di maniglie consolanti nei colori i più abbaglianti» (Discensione): l’elemento base dell’ispirazione non è mai fantastico, puramente immaginario, ma è qualcosa di presente allo sguardo, di quotidiano, di domestico, e di trasfigurare questa realtà ben conosciuta come assolutamente fantastica. O meglio ancora, perseguire, con la scrittura, quello che Slavoj Zizek definisce lo stratagemma del malinconico che consiste in questo: l’unico modo di possedere un oggetto che non abbiamo mai avuto, che è perduto fin dal principio, è di trattare un oggetto del quale abbiamo ancora pieno possesso come se fosse già da sempre perduto. Ora mi sembra questa la disposizione emotiva fondamentale della scrittura di Coluccino. Ogni immagine è passata al vaglio dello stratagemma del malinconico, senza più quella possibilità della cultura simbolista di accedere alla dimensione sovrasensibile delle forme simboliche ideali, ma conservando l’intenso desiderio metafisico di una realtà assoluta collocata al di là della realtà quotidiana.
Tiziano Salari, recensione a L’abbaglio del volatile 
(libretto fatto a mano dall’autore solo per gli amici, 
con una selezione di prose dalla raccolta integrale inedita), 
in “Hebenon”, anno VIII, Terza Serie, n. 1, I sem. 2004

Collocate su posizioni reciprocamente lontanissime e magari antitetiche, le opere dei due autori (Coluccino e Gastini) qui riuniti si configurano però come adiacenti per una comune ambizione di totalità sottesa alle loro rispettive ricerche formali. 
    Tale ambizione, per il poeta, si traduce nel perseguimento – ostinato, inflessibile – di una pluralità di isotopie, attive sia nell’ambito della frase, sia nel breve spazio del singolo sintagma («occhi folti di compenso»), cui viene delegato il compito di presentare l’aneddoto narrativo. Il quale, fissato per culmini, analogie, correlazioni inusitate, è tuttavia coatto nell’ordinamento di una sintassi che non deflette mai dalla propria impeccabile chiusura. 
    È l’esempio magistrale del Rimbaud delle Illuminations. Ora, è proprio questa divaricazione (questa divergenza) fra universo semantico plurimo e la sua indefettibile recinzione formale, che sta all’origine di un’eccedenza del senso spinta sino all’iperbole […] Ne consegue, fatalmente, la frantumazione dell’aneddoto, che diventa perciò irriconoscibile. 
    E se è, questo, lo scotto che paga l’autore, con la sofferenza – per così dire – che infligge al lettore, sarà comunque lì che si situa il nuovo rapporto conoscitivo di cui la lettera del testo si fa depositaria. 
    Qualora però l’aneddoto, fortunosamente, per un allentamento delle predette procedure, pervenga a sopravvivere, si danno esiti di questo tipo, splendidi e godibilissimi: (di una fiera o sagra popolare) «I biglietti per i divertimenti, strappati, trovano oramai, biblioteche di fortuna, le stradine. Si contano le partecipazioni: alle arrampicate e agli altri esercizi sovrumani per gioco. Nel retro della roulotte, il bucato, ombra d’altro, spaventa un magro gruppetto.» (da L’abbaglio del volatile). 
    Oppure si legga qui, a un grado maggiore di complessità e tuttavia sempre nell’ambito di una godibilità di lettura, Capodanno, o anche Al parallelo, del quale si segnala la parentela con un altro grande operatore verbale, René Char, maestro, in questo caso, dei repentini, fulminei trapassi analogici. Che la sintassi, normalmente, ingloba come altrettanti nodi del suo svolgimento. […]
Stefano Agosti, Parola plurale e oggetti metonimici,
introduzione ad Appuntamento, Coup d’Idée, Torino 2010

[…] Cosa sono le “divine trasposizioni”? Sono queste, dell’arte e della parola. E l’espressione è dedotta dal grandissimo Mallarmé, quando, in una commemorazione a Parigi, in occasione dell’erezione di un monumento a Banville nei giardini del Lussenburgo, pronunciò questa frase: «La divine transposition, pour l’accomplissement de quoi existe l’homme, va du fait à l’idéal.» («La divina trasposizione, per il compimento della quale l’uomo esiste, va dal fatto all’ideale»), cioè dal fisico all’astrazione della fisicità, praticamente alla distruzione della fisicità. Il “divino” adoperato in questo senso sembra fuori luogo, ma Mallarmé, nella sua concezione totalmente atea, vedeva proprio nell’azione umana di trasferire dal fisico al mentale (all’astrazione mentale) la caratteristica di questa divinità assente, diciamo, nel cielo, e incorporata nelle terra, nelle cose terrestri, nelle cose del mondo. 
Ho già parlato di Coluccino, sia in questo libro che in altre occasioni; traccerei allora una piccola mappa della koinè linguistico-culturale entro la quale egli si inscrive. […] In una circoscrizione sintattica ferrea, chiusa, si inseriscono percorsi di senso multipli, sovrapposti, che in definitiva caratterizzano, con diversità ovviamente da autore ad autore, tale koinè. Una situazione semantica costituita da una molteplicità di percorsi di senso che in linguistica si chiamano “isotopie”. Naturalmente, tutto questo non viene fuori dal nulla; la matrice, originaria, leggendaria, favolosa, incandescente risiede nella seconda metà dell’Ottocento, nella poesia e nella prosa di Rimbaud. È il primo a operare in tale situazione linguistico-culturale, se vogliamo grosso modo anche semiologica, per cui, in una circoscrizione sintattica ferrea, quindi lontana dalle avanguardie, si inseriscono percorsi di senso multipli, sovrapposti, che in definitiva provocano un alto tasso di ermeticità dei contenuti. Non si tratta di contenuti spezzati, ma di contenuti sovrapposti. 
Coluccino scrive un enunciato di questo tipo – altri certamente li avete sentiti letti prima: «Occhi folti di compenso», costituito da tre parole, ebbene ognuna di esse pare incamminarsi su un percorso autonomo: “occhi” è antropologico, “folti” è quello della vegetalità, “compenso” dipende dall’etica, dal comportamento, dalle strutture morali. In questo enunciato ci sono tre percorsi di senso. Questo comporta quello che io chiamo il tasso di ermeticità che Coluccino infligge al lettore. […] Naturalmente è una posizione conoscitiva che non può essere tradotta, risolta in termini razionali. […]
Tale ricerca poetica di Coluccino sembra venir fuori oltre che dall’esempio di Rimbaud anche da una grande pagina, forse una delle più grandi pagine in prosa – scusate se insisto su queste affermazioni assolutistiche, ma ci credo –, di Mallarmé. In Crise de vers Mallarmé enuncia, relativamente al fatto poetico: «À quoi bon la merveille de transposer un fait de nature en sa presque disparition vibratoire selon le jeu de la parole, cependant ; si ce n’est pour qu’en émane, sans la gêne d’un proche ou concret rappel, la notion pure. Je dis : une fleur ! et, hors de l’oubli où ma voix relègue aucun contour, en tant que quelque chose d’autre que les calices sus, musicalement se lève, idée même et suave, l’absente de tous bouquets» («A che pro la meraviglia di trasporre – ecco la “divine transposition” – un fatto di natura nella sua quasi sparizione vibratile, secondo il gioco della parola tuttavia, se non perché ne emani, senza l’impaccio di un richiamo, prossimo o concreto, la nozione pura. Io dico: un fiore! E, al di là dell’oblio in cui la mia voce confina una certa sua forma, come qualcosa di diverso dai suoi calici noti, musicalmente si alza l’idea incarnata e soave, l’assente da tutti i mazzi.»). Questa è la definizione più bella che ci sia secondo me della parola poetica, nel suo passaggio dalla parola comunicativa, quindi collegata al terrestre, a un’altra parola, che richiama la sparizione vibratile. 
    Però Mallarmé dice «presque». Mallarmé è un grande poeta e forse è il più puro. Sono tanti i grandi poeti, Dante, Petrarca, Baudelaire ecc., ma il più puro è Mallarmé. Il più puro dei pittori della tradizione antica per me è Vermeer, della modernità è Morandi. In tutti costoro la sparizione dell’oggetto concreto, della fisicità, non è mai totale. C’è il presque che mantiene collegato il processo di trasformazione alla lettera della lingua, cioè alla comunicazione terrestre. Il che permette sia la leggibilità della cosa, sia di capire anche tutto quanto vada oltre la leggibilità, e cioè dentro la trasposizione, dentro la “sparizione vibratile”. 
    In Coluccino succede questo, è un caso abbastanza unico: viene eliminato il “presque”, non c’è più il “quasi”, quindi la sparizione vibratile diventa totale. Come si può intendere tutto ciò? Si riconferma quello che dicevo poc’anzi: l’alto tasso di ermeticità della sua produzione. In cui consiste, però, il suo atteggiamento conoscitivo nei riguardi del mondo, nei riguardi della parola e di tutto quello che fa. Manca questo aggancio al terrestre, come se quel fiore di cui diceva Mallarmé, «il fiore assente da tutti i mazzi» che però spunta dal suolo, fosse un fiore senza gambo.
    Come si spiega? Io lo spiego pensando alla totalità della personalità creativa di Coluccino, e cioè pensando, sì, a questa situazione abbastanza eccezionale, che comunque lui paga, e fa pagare al lettore come difficoltà di lettura, ma anche pensando al compenso che egli dà, relativamente a qualcosa di cui sto per dire, … e che è in più ed è diverso.
Secondo me, questa rescissione del presque, e quindi la trasposizione vibratile allo stato puro, viene fuori dall’altra mano del poeta. L’altra sua mano è la musica. Nella musica, per statuto, non vi è alcun legame con il commercio terrestre; la musica è fuori, è addirittura fuori. Che poi esista la “musica concreta”, queste sono altre faccende, ma, dal tempo dei tempi, la musica è fuori dalle contingenze terrestri, da questi peduncoli, cioè dal presque che la collega ai fatti di leggibilità ecc.; così, per capire la musica, ci si mette sostanzialmente in una posizione non di lettura ma di interpretazione. Si pensi al musicista che legge le note come se fosse un critico che legge la poesia.
Concludo questa mia sommaria descrizione del fenomeno. Questa soppressione del presque, questa vibrazione totale (sparizione vibratile dell’oggetto) potrebbe corrispondere a, potrebbe essere collocata sotto un’etichetta – mi sembra la più adeguata per l’interessato – di una... [rivolgendosi a Coluccino in sala, nel pubblico] – guarda che ho adoperato questa espressione solo per i grandissimi! – perseguìta, solitaria, esclusiva musica del senso.
Stefano Agosti, La parola plurale di Osvaldo Coluccino
trascrizione della presentazione al pubblico di Appuntamento
Galleria d’Arte Moderna di Torino, 25 aprile 2010

Gamete. Lemma primario, insidiosamente biocentrico: ciascuna delle cellule che si fondono durante il processo di riproduzione sessuata. Di quella sessualità molare, nella poesia di Coluccino, rimane l’eco. Vale a dire, inscritto nella transumanza, l’“oltre-nel-contiguo”: l’afrore, la spuma di Venere, il soffio di Zefiro, un’infinita coda ritmica. Il ritmo a guisa di onda che batte, diafana, contro l’età nostra, sponda di rovine. Nozze fantasmatiche da supporre, molto indietro nel tempo. 
    In ripiegamenti di lave eteree, o nell’«eclissato cielo», s’intravvede un orizzonte pregresso, perfino l’arché relativa a un “fondare senza fondamento”, per via di cellule immediatamente disperse, cedute all’entropia: «Fondare di lava la casa ma, se nel tempo si muove / E ne trasogna ancora il basalto, freddarla». […]
    Il testo avviene, ma sconvolgendo un ordine. Stefano Agosti, introducendo Strumenti d’uso comune (1994) scriveva: «Abbiamo insomma una violenta dislocazione degli elementi, la quale sospende, in un insieme linguistico e semantico non ordinario, l’evento miracoloso della trasformazione del naturale nel sovrannaturale». Espressività oltrante dell’intervallo che disgiunge, differisce. Di qui il vacillamento spettrale dei corpi, la loro incomponibilità in sequenze di reale («Di magma lo spettro torni visioni»), di qui l’abolita presenza-a-sé del testo in quanto operatore di mimesi. Sintagmi straniati […] folgorazioni intense e brevissime: «La dama fulmineo opra per gli approcci il calice». A venire investita, nel metaorizzonte del calice, è la temporalità della scena, che in quell’attimo conosce un sobbalzo indicibile: acme festoso, poi declinante nello sguardo del «vegliardo» che «Fra quel vetro gli si profila», spento infine dalla «caraffa esangue». 
    Dai gameti discesero la vita, la pluralità, il tempo, e perciò anche la consunzione, la rovina, l’assenza. E infine, a blandire quest’ultime, il mito […] Il bios, per divinazione poetica, s’incanta – leggi incanto e intoppo – nelle (im)posture del mythos […] Neumi scaturiti dal bios, nell’oltretempo […] significanti in suspence edonistica (edenica) sopra la Cosa perduta. Effetti verbali dell’assenza, rigonfi di luce: «La nave è assente ma le spume / Più ardue paiono di gemma / E quasi la sua chiatta riflettente». Ascoltiamo gli incipit di verso: La nà, Piu à, E quà. Giambi schiumosi, rifrazioni acustiche, il dolce saliscendi sulla A dell’apertura primordiale. Lunghissima onda, oceanoterrestre.  
   […] la rotta che conduce al vuoto femminile non s’interrompe. Un ritorno (nostos) alle cavità trasfigurate in «coppe stillanti della sera», il cui vibrare illumina gli stami, o al «puro ventre». Più in basso l’eco di un arcaico transito, propagato da oscura spelonca. Eco invernale, postuma: «Sverna in cinereo speco selvaggio mago». Caverna mortifera e fondativa, impastata di roccia, aria, e di acqua narcissica: caverna speculare entro cui il poeta-mago ascolta, vede, sorseggia la propria eco. [«là dove ascosa in un selvaggio speco / non lungi avea la solitaria cella», Ariosto, Fur., XXIV, 91]
    Se alla Cosa lontana, irrappresentabile, soccorrono i luoghi dell’allucinazione (bagnati dall’ambigua, liquida luce del significante poetico), ecco il mare generoso ostentare i congegni della sua Wunderkammer, equorei talami nuziali. Dove ci avvince, profilato tra schiume, l’oggetto del desiderio in qualità di resto riemerso, che subito dilegua. Non il corpo erotico, solo un feticcio rivestente: «Rimanda a un lungo affondare, / Inseguire vesti gravide in fuga». Gli abiti (rigurgitanti) come “spuma”. Quella che, in controcampo, fa rifluire, sotto forma di spoglie o pure rimanenze, i gameti di Urano (per l’epifania gloriosa di Afrodite). […] 
    Posto che il rudere sia referente abbandonato, cos’è il sospiro se non la brezza alata del suo altrove, che si spinge nell’intervallo rarefatto tra due vincoli? Il primo con la lingua, il secondo con la musica. Magari sta qui, per Coluccino, la coniunctio attesa, mai però la fusione. Solo ritmi, solo tracce di significanza, che dal recitar cantando e dai madrigali di poeti quali il Tasso, Rinuccini e altri, sembrano dirigersi verso l’“eterno azzurro” – ironico proprio perché sorgivo e postumo – di Mallarmé. L’azzurro che nel poeta francese “canta nelle campane”, e in Coluccino è nembo di germogli che tentano il cielo: «Ma il germoglio, su sé, vedrà solo gli alati».
Gilberto Isella, Gamete, un lemma
postfazione a Gamete, Coup d’Idée, Torino 2014

[...] Ho letto la raccolta di poesie Gamete di Osvaldo Coluccino, per le edizioni Coup d’Idée, Torino, 2014, con gioia, e anche con il sollievo di sapere che c’è qualcuno non ancora infettato dal perbenismo della parola. Osvaldo Coluccino usa la catena sintattica per produrre pure iridescenze. Dissolve il materiale della parola [...] con la naturalezza sorprendente del microprestigiatore che fa scomparire le cose da vicino. E, come questi affascinanti professionisti dell’illusione ravvicinata, genera uno scintillio sotto la sola luce dell’evidenza di chi legge, con il semplice scorrimento del senso letterale. Dire perché in un certo testo c’è poesia e in un altro meno è tempo perso con chi non è disposto a sentire, o non ha orecchio musicale, un po’ come voler dimostrare perché la fisarmonica nelle canzoni francesi produce iridescenze e in quelle italiane no. C’è la differenza di un bagliore. Dipende dallo strumento o dalle dita? Secondo me, Osvaldo Coluccino è il maggior poeta italiano contemporaneo per la magia del processo chimico con cui riduce a un bagliore di fiammata il refrattario della lingua di casa. [...] La musicalità del suo verso non è il prodotto di un elenco di assonanze e parallelismi al sicuro nella cassa depositi e prestiti del sapere di casa, ma dà differenze in negativo su quel conto economico, realizzate facendo a ogni parola uno scarto, una deviazione, una inversione di senso, per non limitarsi  a fare una partita di giro lessicale. “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato…” chiedeva Montale, “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. [...]
Michelangelo Castagnottorecensione a Gamete, novembre 2014

[…] Coluccino (il nome mi suonava del resto familiare) è insieme poeta e compositore, e se togliamo l’Opera, credo si sia provato in quasi tutti i generi della musica orchestrale, da camera, vocale; ed è maestro nella elettroacustica. Questa è l’Hic Rhodus più a rischio, come il verso sciolto nella nostra più classica poesia, che fa svelto a finire in tiritera. Queste orecchie ascoltarono musiche elettroacustiche bischerrime, quando stavo a Parma e uno caro ai salotti vi pompeggiava. Se fossi dovuto partire da lì! […] Ho ascoltato per ora le Stanze per pianoforte, cristalline (Col Legno, Vienna 2012) e il più recente disco elettroacustico. Sembra la Musa, presente, che dà il soffio. Tutto par di toccare, tutto vi è vita. Vorrei che qualche lettore si lasciasse allettare all’ascolto. Ora sarebbe facile dire che a tanto musicista, tanto poeta. Ma Coluccino insorge: io sono un poeta!; e intende proprio poeta di parola. […] Il fatto è che Osvaldo par convinto di avere messo un punto alla sua poesia già dal 2003. Gamete, il titolo del libretto appena uscito, ripete del resto quello di una composizione del 2007, Gamete stele, per 9 strumenti, dato su commissione della Biennale di Venezia e commercializzato da Rai Trade. Impossibile distrarsi da altro fatto: che l’intera produzione vocale del musicista (da Nel distacco del 2003 al recente Il viaggio di ritorno, del 2013) è su testi poetici o teatrali dello stesso Coluccino. Mi piacerebbe ascoltarli “dal vero”. Il poeta in quanto poeta è anch’egli della covata di Agosti […] Altri illustri si esposero a favore: Gramigna, lo scrittore straordinario […] e un poeta valoroso come il mio amico […] Giorgio Luzzi […] Ma tu, tu che ne pensi? Questo balzellonare wikipedico non sarà per nascondere un giudizio? Per me Coluccino è tutto polpa. Il musicista e il poeta. E ha carattere. […]
Marzio Pieri, rubrica Note d’Autore
in “Le Reti di Dedalus”, aprile 2015 

Leggiamo la prima sezione della silloge Gamete, intitolata Eliaco, come se fossimo immessi, dalla voce autoriale di Osvaldo Coluccino, nell’atmosfera dei quadri di Poussin. Il lessico ricercato, aulico, introduce in un’atmosfera rarefatta, dove la particolare consistenza della luce, dorata e senza tempo, sembra essere il personaggio principale e i convocati – personaggi mitici – paiono avere la medesima aerea consistenza: «Bevuti in un soffio, di parca reale / Fattezza, al lago tranquillo velati, / Fili opimi al limitare del bianco.» Sonore reminiscenze, le definiremmo, visioni suscitate dal registro linguistico anacronistico (dove anacronistico ha necessariamente funzione strumentale) atte a dipingere una scena, a creare un’ambientazione. A partire da questo evocativo fondale, si può risiedere atemporalmente sulle due opposte sponde di un medesimo fiume, e vivere nella cultura, riattualizzandone le opere: si può vivere, dunque, in un’altra epoca, farla propria. Nella sezione che dà il nome al libro, la narrazione sembra avere uno svolgimento solo al fine di ottenere un immoto quadro. Scrivere come se si dipingesse, scrivere per dipingere, in realtà: «La nave è assente ma le spume / Più ardue paiono di gemma». Tuttavia, con un gusto particolare: quello che scorge nelle analogie, quasi una prova dell’identità comune: «La salvia si conosce nel corallo. Sposalizio». Quale sarebbe, infatti, il discrimine? La soglia che consenta di affermare: qui c’è una cesura, la differenza tra mitico e reale. Oppure che consenta di chiedersi: vivo in quest’epoca? Se la propria interiorità può assumere persino cangianti forme mitiche, è possibile! E l’autore trascina con sé, inevitabilmente, il capovolgimento come figura principe a cui sottoporre il senso per attivare l’intero arco semantico: «È un’apparizione strana, di me stesso qui, / Più che in altre balde epoche, direi, / Se non fosse improprio, capovolto». In tal maniera, l’io appare immerso in una congerie d’immagini classiche e rinascimentali, in cui alcune parole, nel flusso testuale rullante, appaiono come intoppi temporali: «Slancio di cui la famiglia si fregiava / Fu scolato umore a non fargliene fregare. O acque mute, ove l’abito da eroe / Che lo tramutò in subacqueo, erodeste?». Così forse non crediamo all’uso dei simboli profusi nel testo: la torre, il leone, la fenice, le ali, la coppa, la nave, il vento. Non crediamo siano da decifrare, ma lemmi che al pari di navicelle, ci possano dislocare altrove, da cui lasciarsi trasportare.
Rosa Pierno, Su Gamete di Osvaldo Coluccino,
in “Carte del Vento”, anno XIV, n. 33, gennaio 2017

[…] Fra Giulia Napoleone e Osvaldo Coluccino sussiste un naturale legame: le loro sensibilità, che sono entrambe definibili come “estroflesso animo” [Coluccino], hanno la naturale tendenza a distillare essenze dal variegato, illusorio, aspetto. Una esemplare citazione, da Unione con le assenze, al fine di dimostrare la eterogeneità degli elementi in gioco, è “Da luce assente già incarnata”, in quanto vi gioca inesausto il rapporto tra entità non riassorbibili l’una nell’altra. Incorporeo, invisibile, materico sembrano consustanziali e, tuttavia, radicalmente estranei, tanto che il passaggio tra l’oggetto che è all’origine del dato percettivo, e la sua elaborazione concettuale sembra disturbata, incompiuta; sorgiva e caduca allo stesso tempo. Si vedano i primi versi di Essenza della montagna, la prima delle tre poesie di Coluccino. 
    Viene in mente il mito della caverna di Platone, nella interpretazione idealista di George Berkley, il quale afferma che gli uomini non conoscono direttamente i veri oggetti di cui è costituito il mondo: piuttosto, ne conoscono soltanto l'effetto che la realtà esterna ha sulla loro mente, sicché quando si osserva un oggetto, si ottiene una semplice rappresentazione mentale del “vero” oggetto della realtà esterna. Per Platone, invece, le forme conosciute dalla ragione e non dalla percezione sono quelle vere, reali.
    La visione che si dispiega nel libro d’artista di Giulia e Osvaldo, ossimorica e perturbante, mette d’altronde sull’avviso: come dal concreto si passi all’astratto dopo elaborazione personalissima, è questione che si mostra già allo sguardo […]
    Se per Giulia le essenze sono metafisici concetti, ottenuti tramite trasformazioni che tendono alla geometria, conformazioni naturali di partenza da cui sono stati sfrondati via via i dettagli corporei, cosicché divengono sempre più eteree, ma mai al punto da perdere il loro referente sostanziale, per Coluccino, s’intravedono boe saldamente disseminate, concretissime, che reggono il filo dei suoi sorvoli. Il rimbalzo è continuo e forse è più un filo che lega assieme le diverse percezioni, odore, suono, anziché un tentativo di disincagliarsene per risalire all’astrazione. Perché per Coluccino sembra essere questo il quid: le percezioni si danno assieme e appaiono non districabili, mentre la lingua non può che separare e forzosamente tentare la risalita a una impossibile distinta origine percettiva. Ma l’essenza per lui è, appunto, un assente. 
    Napoleone e Coluccino hanno entrambi studiato musica e credo che sia un elemento da tenere costantemente presente, mentre si sfogliano le loro ragguardevoli pagine. Ecco, la musica forse è l’assente presentissimo! Propenderei per un’affermazione trachant: tutto il resto è l’inevitabile mare di detriti che gli autori portano con sé nell’impresa di mostrare la distanza tra concreto e astratto  (mare, cielo, onda, viaggio), tra mente che sente / pensa / percepisce e realtà stolida e ottusa. Tra elaborazione percettiva, ombra ed essenza assente. L’essenza come mistero mallarmeano: pur utilizzando una forma conchiusa, Coluccino rende il linguaggio vibrante, in senso semantico, attivandone la capacità evocativa, non descrittiva, né definitoria. […]
Rosa Pierno, Giulia Napoleone e Osvaldo Coluccino 
in “Essenze, assenze”, libro d’artista, 2022,
in “Trasversale”, novembre 2022

Quella di Osvaldo Coluccino è una scrittura poetica tra le più radicali e stilisticamente elaborate nel panorama italiano contemporaneo. Dove la logica dell’assenza, fungendo da catalizzatore, tocca in primo luogo il soggetto dell’enunciazione. Un soggetto scrivente dislocato o addirittura evaporato, a tutto vantaggio del testo offerto nella sua purezza essenziale, libero da interferenze da parte dell’io empirico. […] Qui il linguaggio, grazie alla sua potenza combinatoria e pervasivamente evocativa, ha la priorità assoluta. Togliendo potere all’enunciatore empirico, il tessuto verbale si fa sguardo incondizionato, che non disdegna dinamiche proprie. Operatore di continue metamorfosi, lo sguardo colucciniano inclina verso le sue radici profonde, per poi rivolgersi al cielo. Ecco un esempio tratto dalla poesia Ai piedi degli abeti, fine anni ottanta: «Monticelli d’emigrati sguardi / A piedi degli abeti si accucciavano / […] Fluivano sino all’ade / Le radici, ed essi [vale a dire gli sguardi] le coglievano a scorrere / E inabissarsi catafratte, ora, vulnerabili, / Riaffiorare per un tratto, e sino ai rami / Alti propagarsi quale muta al cielo.»
    Un paradigma prende dunque piede. Quanto alla condizione di assenza, basti citare pochi versi della suite inedita Invito alla Terra. L’assenza, qui non disgiungibile dall’essenza, che fa anzi un tutt’uno con questa […] Assenze-essenze, insomma, che debordano dalla propria autonominazione astratta. Che corrispondono, come suggerisce un verso di valore sintetico teso alla definizione di un preciso campo mitico-semantico, a “numinose presenze esterne”. Si mediti anche su quegli enunciati segnaletici, nella suite Caducità, dove l’assenza si dà per epifanie tortuose e tormentate, tanto da poterne evincere le valenze problematiche: «Com’è in basso, / In mappe d’empirei omesso, / L’incorporeo di nuvole, e, / Arrotondando comignoli, / Come impasta, tinteggia. / E sull’albero, ove, / Prospettive nuove, ripara, / Per i protesi alle estremità, Ventagli, in foglie, suona.» In base a tali postulati, il progetto poetico di Coluccino esclude la tensione verso il nulla, concentrandosi piuttosto sulla movimentazione della parola verso un reticolo di soglie indizianti la realtà sensibile, sebbene concepita nell’ordine del margine o del fantasma. E ciò avviene attraverso un laborioso processo metonimico, o per arditi salti ellittici, entro una frammentazione continua degli oggetti dotata nondimeno di un presumibile filo conduttore. Otterremo così un arredo metamorfico di sembianze che avviluppano le supposte “mappe d’empirei” o il nebuloso “incorporeo”, coinvolgendo il mondo di fuori dunque, in una ridda cifrata di visioni, o meglio di captazioni sinestesiche, dove la vista si intreccia all’udito e indubbiamente anche all’olfatto. Ne colgo blasoni dentro la suite Essenza della montagna: «[…] il ludo sospeso / Fra ammontati rami, frementi / E lesti a intrecciare fragranze / Quanto alacri voci, nell’attimo /  Intesi operare con bando, sospiri.” O ancora, di seguito: “Il volatile adagio volteggiando si aggira / Sui bui olezzi e s’arrovella, per intendere, / Frale, tanto fine con mira cui salgono.» Da notare, per inciso, la marca stilistica “frale” (ossia fragile) rovesciarsi poco dopo nel sintagma “Fra leggi di roveti e attese”. Disseminazioni del genere, basate sullo slittamento creativo dei significanti, se ne trovano parecchie in altre occorrenze testuali. […] Ciò che conta è in ogni modo l’allestimento di “prospettive nuove” regolate sull’asse spaziotemporale da indicatori differenziali concernenti il qui e il là, il sopra e il sotto, l’immanenza e il suo oltre – un po’ come succede con l’imene in Jacques Derrida – tuttavia capaci, malgrado la loro propensione ad astrarre, di sollecitare i sensi primari, di ricondurre il lettore all’ipotetico magma referenziale, nella sua presumibile solidità. A testimoniare lo stato di sospensione e la tendenza al differimento provvede anche quel moto alare allusivamente ‘angelicato’ («Chi posò premendo in danza l’ala») […] sottilissimi passaggi metonimici, su ventagli, velami, vaporosi ponti, scialli, con ammicchi più o meno diretti, quanto agli oggetti scelti, all’immaginario di Mallarmé. […]
    […] La caducità è ampiamente focalizzata nell’omonimo folto testo, Caducità appunto, ricco di topologie mutevoli. […]  Nei versi: «Ma è saldo il senso ignoto / Di quel vaporoso ponte / sulla casa solida?», ad esempio, la domanda sembra ipotizzare il senso come un mero bisticcio verbale, o addirittura lo pone sotto una cappa velatamente ossimorica.
  Il libro d’artista Essenze, assenze […] Ci troviamo, in senso lato, nell’ottica del mito platonico della caverna: dove le idee sublimi si confrontano con le loro ingannevoli imitazioni sensibili. Da rilevare, in funzione di cardine tematico, il verso «Da luce assente già incarnata» (nella suite Unione con le assenze), che rispecchia con toni diversi l’opposizione alto-basso, in tutte le sue modulazioni semantiche, offerta nella prima strofa di Essenza della montagna. Al mito platonico occhieggia, ma per frante anàmnesi, quasi ai margini della decostruzione, l’intero corpo di questo poemetto, magari nella stretta di un distico: «Saprà schiudere la mia lassa grotta / Riposta nello splendore inferito?». Al quale risponde, con significato inequivocabile, la terzina: «Alle falde del monte lasciata, / Ove morì, l’ala, il fossile che, / Ai pesi negato, s’infisse».
    Se il fossile convoca un’idea di morte, il processo decostruttivo che lo supporta dev’essere preso però con cautela. Poiché l’istanza della scomparsa, al termine di questo viaggio investigativo, si riscatterà in una rinascita immaginaria nel passato più lontano: «Ritornando verso quel suo ambiente antico», si legge nel pannello conclusivo del poema, dal titolo Il viaggio di ritorno. Un viaggio a ritroso compiuto «su proibitive tracce» e perciò in nessun modo nostalgico, di sapore squisitamente moderno anzi e nel segno del disincanto e del mal d’esistere, ma ambientato pur sempre in una cornice temporale posta sotto il dominio del numinoso. Senonché il numinoso, così in Coluccino come in Hölderlin o nel Rilke dei Sonetti a Orfeo, è tenuto a rispettare canoni espressivi adeguati, a loro volta improntati all’antico. Sa di portare con sé una genealogia.
    Occorre allora un lessico di registro tendenzialmente alto, così come un assetto sintattico armonioso e regolato da simmetrie, ispirato alla classicità. «Ritorno di un fluire antico, immobile», si legge in La rinuncia. Un solo esempio, per concludere. Si tratta della strofa inaugurale della poesia Il viaggio di ritorno: «Conserva, lana ostile, ancora / Il viaggio d’andata addosso. / Tutto – oneroso bagaglio di dovizie – / Porta, sul suo fondo e al derma, / Somatica malattia d’esistere.» Ma cosa c’è di più contemporaneo del mal d’esistere?
Gilberto Isella, Poesie inedite di Osvaldo Coluccino
Dalla conferenza nella serata dedicata a Osvaldo Coluccino, 
Galleria d’Arte Areapangeart, Bellinzona, 12 giugno 2023

[…] In Coluccino la musica è tutto. Non che la parola – nella grande scia simbolista – consumi per intero – o tenda a farlo – il suo signifié, ma una conciliazione tendenzialmente perfetta, un analogismo che mantiene una sua strana chiarezza: non tanto di senso, ma di pronuncia. E di ciò c’è sicura testimonianza in un distico del terzo dei tre poemetti che formano l’unità del libro presente, Cieli d’assenzio, titolo su cui tornerò: «Strisce di senso dal vapore del dire, / scìntillino lettere di magia congiunte!», con tanto di esclamativo a sottolineare l’energia dell’intenzione. 
    Nell’insieme un’aristocratica dizione che attinge a un vocabolario eletto discendendo negli evi di un linguaggio che disegna, nei pur manifesti contrasti emotivi – e nelle pieghe dei fatti narrati, che comportano una dialogicità in tensione –, una gentilizia ricerca di dizione, un’eleganza […] Non che i deittici non indichino ben precise coordinate di tempo e di spazio. Non che non si riesca a individuare luoghi determinati e momenti di una drammaturgia persino convulsa. Del resto – e ci torno – è proprio il titolo ad aiutarci: Cieli d’assenzio. 
    […] Resta in ogni caso che l’altezza celeste s’accompagni qui – nel titolo – a un vero e proprio ossimoro, perché l’esperienza dello slancio verso i cieli s’intride di amarezza e di dolore, ma poi, ad un tempo, si scioglie in una leggerezza di volo che si compone in unità, che si libra in ascensione, e che si sposa alla tensione cosmica entro eterei ed aerei “effluvi”, alla costante e scarcerata (sprigionata) ricerca dell’altrove capace di rompere sbarramenti e muri per assimilarsi ai segreti rarefatti del sonno e del sogno. 
     Tre – dicevo – i poemetti, datati 1987, 1988, 1989, come a dire anni davvero lontani, anni giovanili, se è vero che Coluccino è del 1963; quindi un autore di poco più di vent’anni, che va in cerca della sua voce, voce di canto e d’incanto, voce che trova il suo timbro in una dizione sceltissima […]
     […] Preziosità che pare collocarsi sulla scia di un simbolismo rivisitato, prezioso ma non flou […] in ogni caso sicuramente più visionario che visivo, avvinto a una figuratività, in cui le cose, i décor, i deittici si trasformano in altro da sé, in una pluralità analogica che sposta di continuo il segno e di continuo sposa l’alterità di una leggerezza (levità) mutevole. E che dice di sé tanto l’aspirazione del volo – delle “aligere” elevazioni – quanto la dolcezza panica della fusione terrestre e meglio ancora, terrigena.
    […] Musica e coreutica in unità di gesto e di rastremazione corporea: «Mi spoglio dell’orgoglio / E con le spalle appoggiate / Voglio sentire la pelle / Dell’al di là del muro / Entrar nel mio destino, / Voglio con le ossa provare / Di quella sensazione / Trapassata l’ultimo fine». Canto dunque di spoliazione. L’oltre e l’altrove tentati – come nell’ascesi anche stilistica di Joubert – attraverso la povertà e l’umiltà di un giaciglio francescano: «Sul giaciglio solo e silente, il fiato / Odo e il gorgoglio e il cuore / Riverberarsi contro i muri». […] Vento, acqua e terra in un continuum che lega la terra al cosmo, la vita alla via lattea: «Le macchie sulle rocce sono stille di Sirio; / Sui calici fioriti c’è Venere in polvere; / Giove acqua di pozze; cosparsi raggi / Su radici grezze, radici sulle stelle». Fruscii, ancora, e velluti, e brusii (emblematicamente: «tu spilli aliti»…). Fino ad ottave che si impongono per la loro non scorporabile – quantunque da me scorporata – esemplarità interamente risolta in musicali e figurali variazioni: «I trilli brevi sorgono dalle frasi / Lunghe dello spirito avvivato. / Oh cantate nel carminio delle scie / Di coccinelle, partorienti spiriti / Che l’inconoscibile lambisce! / Oh cantate nel madreperlaceo degli / Aloni fluorescenti delle chiocciole / Quando anelano ante tempo!».
     Il divino hoplà – come voleva Nietzsche – che genera la parola in preda al ritmo, e che consiste nel sentire un pensiero come più vero perché espresso in forma metrica. Né più né meno di ciò che Manlio Sgalambro afferma nel suo testo, La consolazione: “A che ti serve aver capito se non tremi? Ecco, hai capito, e allora? Non è successo proprio niente. Se invece a quell’enunciato sei scosso dai brividi, magari non l’avrai capito, ma in compenso hai visto qualcosa che ti ha fatto tremare. Ecco dunque la differenza tra un filosofo e l’altro. Per il primo, quello della responsabilità, il climax è capire; per l’altro, quello dell’irresponsabilità, il punto da raggiungere è questo brivido che lo fa tremare. Egli ha capito? No, magari non ha capito proprio nulla, ma deve aver visto qualcosa se trema come un giovane capriolo braccato”.
    Credo che questo valga per tanta poesia, e certo – e di più – per questa poesia di Coluccino. Il quale da qui in poi ha proseguito nel cammino, ottenendo molti consensi critici, da Agosti a Gramigna a Isella a Luzzi, da tutto un côté di critici intelligenti ed esigenti cui la poesia di Coluccino conviene per severità d’elezione e per coerenza d’esecuzione. Poesia che sprigiona con linguaggio analogico e prezioso – dettato, o meglio, “dittato” dalle radici del sogno – un alto potenziale di sensi plurimi, di congiunzioni favolose, di mitiche trasmigrazioni, che ci parlano delle celestiali e cosmiche corrispondenze terrestri: tra qui e là, tra dove e altrove, tra corpo e anima, tra l’inesausta musica delle sfere e la pluralità inesausta dei versi che Coluccino – fin da queste prove giovanili – ha saputo musicare. 
Giovanni Tesio, Coluccino, ovvero della pluralità tra musica e senso
introduzione a Cieli d’assenzio, Carabba, Lanciano 2023